Il Coraggio del Cambiamento: Perché il Consulente Non è un Amico, ma un Alleato

Spesso ripensiamo a quel momento preciso in cui un’azienda decide di chiamarci. È quasi sempre un momento di estremo bisogno, quello che potremmo definire il “momento della verità”, dove tutto sembra cospirare contro: le spalle sono ormai al muro, i conti faticano a tornare, il mercato è cambiato senza chiedere il permesso e le vecchie, rassicuranti ricette non funzionano più. In questa fase delicatissima, l’imprenditore accetta, obtorto collo, di farsi aiutare. È una resa consapevole, dettata dalla necessità, e nasce dalla comprensione, per quanto dolorosa, che sarà necessario mettere in discussione molto: processi consolidati, prassi comode che semplificavano la giornata e, soprattutto, la propria forma mentis, il modo stesso di vedere il business.

Ed è proprio qui che inizia il nostro lavoro più delicato, quel camminare costante sul filo del rasoio. Un consulente serio, lo sappiamo, non vende illusioni o scorciatoie; propone una strada, spesso impervia, ma l’unica percorribile per uscire dalla crisi. Una strada lastricata di adeguamenti degli assetti, di rigore nelle compliance, di una trasparenza totale e a volte spietata di tutti i KPI aziendali. Perché ormai è chiaro a tutti che scherzare su questi fronti può costare carissimo.

All’inizio, si crea un’onda di fiducia e quasi di gratitudine. Finalmente si intravvede una via d’uscita, una mappa per l’orientamento. Ma è dopo, quando si passa dalla teoria alla pratica, che arriva la fase veramente complessa. Spesso, le azioni che vengono realmente messe in atto sono solo una parte, a volte nemmeno la più significativa, di quanto era stato concordato. È un meccanismo psicologico più che comprensibile: il tentativo di risolvere un problema enorme con lo sforzo minore possibile, quasi che applicare metà della cura prescritta potesse guarire l’intera malattia.

Ed è a questo punto critico, quando la fatica del cambiamento si fa sentire, che spuntano, come funghi dopo la pioggia, quelli che chiamiamo i “consulenti del sì”. Abili oratori dell’illusione, esperti nel dire all’imprenditore proprio ciò che il suo io più affaticato vorrebbe sentirsi dire: che ha ragione lui, che il precedente consulente non aveva capito nulla della sua azienda speciale, che tutto quel rigore non serve, che si può tornare alla vecchia normalità. Il “cartellino rosso” verso di noi, in questi frangenti, è spesso veloce e senza contraddittorio. La diagnosi scomoda ma veritiera viene prontamente sostituita dall’illusione confortante.

E noi, a questo ci siamo abituati. Fa parte del gioco, è un rischio professionale che accettiamo. Quello a cui non ci abituiamo mai, però, è il timore sordo e persistente che anni di lavoro, di analisi, di progetti costruiti con cura, vengano vanificati da queste pericolose tentazioni. Perché il vero prezzo di un ripiegamento sull’illusione, lo sappiamo bene, non lo paga il consulente estromesso. Quel prezzo, nel peggiore dei casi, lo paga l’azienda nella sua interezza: i collaboratori che ci lavorano a tempo pieno, le loro famiglie, tutto quell’ecosistema di persone e relazioni che dipende, in ultima analisi, dalla lucidità e dal coraggio di chi siede al timone. La nostra, quindi, non è una questione di orgoglio professionale ferito. È una questione di responsabilità che sentiamo di avere verso il sistema-impresa nel suo insieme.

In realtà, il nostro compito più autentico non è essere degli eroi, ma degli architetti della sostenibilità. Siamo alleati, non amici compiacenti. L’amico, a volte, ti dice che va tutto bene anche quando non è vero, per non turbarti. L’alleato, al contrario, ti avvisa del pericolo che non vuoi vedere e ti aiuta a prepararti ad affrontarlo. Il nostro lavoro è costruire un’azienda resiliente, non solo tamponare un’emergenza. Un’azienda in cui i KPI non siano semplici numeri su un foglio Excel, ma la bussola che guida ogni decisione strategica; dove le compliance non siano un adempimento burocratico, ma un’armatura robusta contro i rischi; dove l’assetto organizzativo sia chiaro, snello e realmente efficiente. Questa trasformazione profonda richiede un coraggio che va ben oltre l’accettazione iniziale a denti stretti. Richiede la perseveranza quotidiana di applicare la cura fino in fondo, anche quando è amara, anche quando la tentazione di abbandonare la terapia è forte.

Alla fine, la scelta per un imprenditore si riduce sempre a una questione fondamentale: la scelta tra il vero e il comodo. La strada del vero è faticosa, richiede umiltà e una disciplina ferrea. Promette, però, un ritorno a una salute solida e una crescita sostenibile nel lungo periodo. La strada del comodo è rassicurante all’inizio, è una carezza sull’ego, ma è lastricata di illusioni. E porta, quasi immancabilmente, a un peggioramento della situazione, semplicemente rimandato nel tempo. Noi siamo qui per percorrere la prima strada, al fianco di quegli imprenditori che, nonostante la fatica e i dubbi, hanno il coraggio di guardare in faccia la realtà e di costruire il futuro della loro azienda su fondamenta solide. Perché il successo più grande di un consulente non è essere osannato, ma poter assistere, un giorno, al prosperare dell’azienda del cliente, forte e autonoma, anche e soprattutto senza più bisogno di lui.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

18/11/2025

L’Inganno del Talento: Come evitare di assumere un collaboratore tossico.

Ieri sera, a cena con un partner dello Studio, tra un piatto e l’altro, abbiamo finito per parlare di una cosa che capita in tutte le realtà che crescono: le persone sbagliate. Ci siamo ricordati di quei collaboratori, apparentemente strategici, che in questi sette anni sono passati dall’essere semplicemente inefficienti a veri e propri disastri, capaci di creare danni concreti.

E il pensiero che è emerso forte e chiaro è stato questo: all’inizio, sembravano tutti perfetti. È incredibilmente difficile capire subito la vera natura di una persona, specialmente se è brava a recitare la parte, a mostrare una maschera di competenza e affidabilità impeccabile. Eppure, come in una qualsiasi relazione tossica, i segnali d’allarme, le famose red flag, ci sono sempre. Magari sono sottili, un vago senso di fastidio dopo una conversazione, una battuta che suona strana, la tendenza a buttare la responsabilità sugli altri con eleganza. Ma ci sono.

Il problema è che noi, spesso, non vogliamo vederli. I nostri pregiudizi cognitivi ci portano a vedere la persona che desideriamo ci sia davanti, non quella che è realmente. Cerchiamo disperatamente le conferme che abbiamo fatto la scelta giusta, magari perché il curriculum era brillante, e allo stesso tempo sminuiamo ogni campanello d’allarme come un semplice malinteso. Vediamo il potenziale, il “diverrà bravo”, e non la realtà del presente.

Dopo aver perso tempo, soldi e, cosa ancor più preziosa, un po’ della nostra credibilità, abbiamo capito che la soluzione non è diventare cinici o sospettosi di tutti. La soluzione è molto più semplice e intelligente: farsi aiutare da uno sguardo esterno. Affidare la valutazione dei candidati a una persona preparata che non sia coinvolta emotivamente, che non senta la pressione di dover coprire quel ruolo, e che possa guardare la situazione con il distacco necessario. Questa persona, un recruiter o un consulente serio, ha gli strumenti per fare le domande giuste, per notare le incongruenze che a noi sfuggono, per valutare il carattere e non solo le skills tecniche.

Alla fine della fiera, è un investimento che fa risparmiare molto più di quanto costi. Mi piacerebbe sapere se è una storia che suona familiare anche a te. Ti è mai capitato di renderti conto troppo tardi di aver accolto nel tuo team una persona sbagliata? Qual era quel segnale che, ripensandoci, avresti dovuto notare? E, soprattutto, come fai oggi a tutelarti per non ripetere lo stesso errore? Raccontarmi la tua esperienza sarebbe davvero prezioso.

Articolo di Marco Simontacchi

12/11/2025

Dalla Gestione della Paura alla Pianificazione della Crescita

Viviamo in un mondo economico sempre più volatile e complesso, in cui affermare che la gestione e la mappatura dei rischi siano una mera esercitazione accademica o una perdita di tempo significa non averne colto l’essenza più profonda. Questa pratica, lungi dall’essere astratta, rappresenta piuttosto il processo attraverso il quale un’impresa impara a conoscere sé stessa, a misurare il proprio respiro e a diagnosticare le proprie vulnerabilità. È un atto di consapevolezza strategica che trasforma l’ignoto in un territorio conosciuto, classificato e, soprattutto, gestibile.

Il punto di partenza è un’esplorazione sistematica del proprio ecosistema operativo, un vero e proprio viaggio di scoperta all’interno dell’organizzazione. Si tratta di identificare non solo i pericoli evidenti che incombono sul presente, ma anche quelle ombre lunghe proiettate dal futuro, potenziali minacce che potrebbero materializzarsi a seguito di un cambiamento normativo, di un’innovazione dirompente o di un mutamento nei comportamenti dei consumatori. Si passa in rassegna l’intero spettro delle possibilità avverse, dall’errata pianificazione strategica che può condurre in un vicolo cieco, alla concorrenza aggressiva che erode quote di mercato, fino alle più concrete interruzioni produttive o ai banali, ma costosissimi, errori umani.

Questa mappatura non è un semplice elenco disordinato di preoccupazioni. È una tassonomia che dà ordine al caos, assegnando ad ogni rischio una dimora categoriale precisa. I rischi finanziari, come l’insolvenza di un cliente chiave o la volatilità dei costi delle materie prime, trovano la loro collocazione accanto a quelli tecnologici, dove l’incubo di una breccia nella cybersecurity convive con lo spettro dell’obsolescenza dei sistemi informatici. A questi si affiancano i rischi normativi, un labirinto in continua evoluzione fatto di adempimenti sul GDPR, di normative ambientali sempre più stringenti e di doveri in materia di sicurezza sul lavoro. E poi, in un’epoca in cui la reputazione si costruisce e si distrugge online in poche ore, non si possono trascurare i rischi reputazionali, scatenati da un reclamo virale o da una crisi sui social media che erodono quel bene immateriale e preziosissimo che è la fiducia dei partner e della clientela.

Una volta completata questa radiografia, ogni rischio identificato viene sottoposto a una valutazione che ne quantifica la potenziale gravità e la probabilità di occorrenza. È qui che nasce il rating, un giudizio sintetico che permette di stabilire delle priorità di intervento, di distinguere un’increspatura da uno tsunami in potenza. Questo passaggio è cruciale perché trasforma la preoccupazione in pianificazione. A questo punto, l’azienda smette di essere una spettatrice passiva del proprio destino e diventa architetto della propria resilienza.

È in questa fase che prendono forma i piani di mitigazione e i recovery plan. Il primo è l’insieme di azioni proattive volte a ridurre la probabilità che un rischio si verifichi, o a contenerne l’impatto se dovesse materializzarsi. Il secondo è la road map da seguire per riprendersi dopo che l’evento avverso si è verificato, un piano di emergenza che garantisce la continuità operativa e minimizza i danni. Avere questi piani non significa essere ossessionati dalla paura, ma essere preparati alla complessità.

Il risultato ultimo di questo intero processo, apparentemente tecnico e a volte faticoso, è paradossalmente molto umano e strategico: la serenità. Quando un’impresa sa di avere una mappa dettagliata dei pericoli che può incontrare sul suo cammino e, soprattutto, sa di avere in tasca gli strumenti per affrontarli, può finalmente liberare le proprie energie. La leadership e le risorse non vengono più disperse nella gestione ansiosa dell’imprevisto continuo, ma possono essere concentrate con maggiore lucidità e determinazione sul core business. L’azienda può così innovare, crescere e competere non perché ignori i rischi, ma proprio perché li conosce, li ha misurati e ha costruito attorno ad essi un solido sistema di difesa. In questo senso, il risk management non è un costo, ma il più abilitante degli investimenti, il fondamento di una crescita non solo solida, ma anche sostenibile e consapevole.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

04/11/2025

La PMI che non cambia è già fuori mercato

C’è una storia che raccontano spesso, quella della rana bollita. La conosci, vero? Se butti una rana in un pentolone d’acqua bollente, lei salta subito fuori. Ma se la metti in acqua tiepida e alzi il fuoco poco a poco, non se ne accorge, si adatta, finché non è troppo tardi. Ecco, a volte mi chiedo se molte piccole e medie imprese non stiano nuotando, loro malgrado, in quella stessa acqua. La temperatura sale così gradualmente che quasi non te ne accorgi. I cicli una volta erano secolari, poi decennali, poi annuali. Oggi? Oggi il ritmo del cambiamento viaggia nell’ordine dei mesi, a volte delle settimane. E in questo contesto, la resistenza al cambiamento non è più un difetto di carattere, un’idiosincrasia gestionale: è un fattore di rischio gravissimo, forse il più subdolo in assoluto.

Il problema è che non si tratta solo di lentezza o di pigrizia. Il vero pericolo striscia dentro, silenzioso, ed è quello che ci convince di avere già ragione. È il bias cognitivo di conferma, quel meccanismo perverso per cui, senza nemmeno accorgercene, cerchiamo solo le informazioni che confermano ciò che già pensiamo e scartiamo tutto il resto. Continuiamo a leggere gli stessi giornali, a frequentare le stesse fiere, ad ascoltare gli stessi consulenti che ci dicono quello che vogliamo sentire. Il mercato sta cambiando? No, è solo una moda. Quel concorrente sta facendo qualcosa di nuovo? Bah, sono fuori strada. I nostri clienti storici cominciano a deflettere? Colpa della crisi, non di noi. Così, mattone dopo mattone, costruiamo un muro attorno a noi, convinti di stare edificando una fortezza, mentre in realtà ci stiamo murando vivi in un modello che il mondo sta superando.

E la frittata, a quel punto, è fatta. Quando ti svegli e l’acqua è ormai prossima all’ebollizione, il salto è impossibile. Perdi mercato non perché il tuo prodotto sia improvvisamente diventato scadente, ma perché il mondo attorno ha cambiato linguaggio, ha cambiato bisogni, ha cambiato velocità. Perdi pezzi di clientela, non perché siano infedeli, ma perché tu per primo sei rimasto fedele a un’idea del passato. E la sopravvivenza stessa, il poter restare in gioco, diventa una questione drammaticamente aperta.

Ma c’è una via d’uscita. Non è una formula magica, non è un decalogo. È una questione di sguardo. Serve visione, che non è avere un’idea geniale una volta ogni dieci anni, ma è la capacità di leggere il presente con gli occhi del futuro. Serve consapevolezza, che è l’onestà intellettuale di ammettere che forse, nonostante tutti i nostri successi passati, potremmo non avere più tutte le risposte. E serve, soprattutto, una spietata capacità critica verso noi stessi, verso le nostre certezze, verso i nostri “abbiamo sempre fatto così”.

Perché il punto non è reagire al cambiamento. Reagire significa che il cambiamento è già avvenuto, che qualcun altro ha già scritto le regole del gioco e tu arrivi dopo, inseguendo. Oggi vince chi gioca d’anticipo. Chi sente il fremito del mondo che verrà ancor prima che si manifesti. Chi ha il coraggio di mettere in discussione il proprio prodotto, il proprio processo, il proprio mercato, prima che sia il mercato stesso a farlo, in modo brutale e definitivo. Non si tratta di essere sempre all’avanguardia tecnologica, si tratta di avere l’umiltà di imparare sempre e l’audacia di immaginare cosa verrà dopo. Il sonno della ragione, si dice, genera mostri. Il sonno dell’impresa, oggi, non genera nulla. Semplicemente, spegne i motori.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

29/10/2025

Il futuro della finanza è ora

Negli ultimi anni il panorama della finanza d’impresa è cambiato radicalmente. Le fonti tradizionali, come il credito bancario, hanno progressivamente lasciato spazio a nuove modalità di raccolta fondi che consentono alle imprese di finanziare la propria crescita in modo più diretto, trasparente e sostenibile. Tra queste, il crowdfunding , sia nella forma equity che lending, e i minibond rappresentano oggi una delle frontiere più dinamiche e promettenti della finanza moderna per le PMI italiane.

Tuttavia, è necessario sfatare un mito diffuso: quello secondo cui queste forme di finanziamento siano più “semplici” o “accessibili” rispetto al canale bancario. La realtà è esattamente opposta. Se la banca può basare la propria valutazione anche su relazioni consolidate o garanzie personali, il mercato, fatto di investitori, fondi, piattaforme e analisti indipendenti, richiede trasparenza, affidabilità e coerenza. In altre parole, l’impresa deve essere “leggibile” e dimostrarsi finanziariamente sana, organizzativamente solida e strategicamente orientata alla crescita.

Chi vuole accedere a queste forme di finanza alternativa deve quindi presentarsi con conti perfettamente in ordine, un piano industriale chiaro e un business plan credibile, basato su numeri verificabili e su una struttura coerente con la propria realtà. Non si tratta di vendere un sogno, ma di costruire fiducia attraverso la solidità dei dati e la visione imprenditoriale. A questo si aggiunge un altro requisito spesso sottovalutato: la compliance certificata agli obblighi di legge, che include l’adozione di adeguati assetti organizzativi, sistemi di controllo interno, e processi di risk management che tutelino investitori e stakeholders.

In questo contesto, la finanza alternativa non è una scorciatoia per chi vuole “tappare un buco”, ma un potente acceleratore per chi ha un progetto di crescita autentico. Esistono oggi fiumi di capitali pronti a essere investiti: investitori privati, fondi specializzati, piattaforme di crowdfunding e operatori istituzionali sono alla ricerca di PMI virtuose, capaci di dimostrare una governance solida e una visione evolutiva. Il denaro non manca: manca piuttosto la preparazione delle imprese ad accoglierlo.

Il messaggio per l’imprenditore è chiaro: non si tratta di chiedere un favore al mercato, ma di offrire un’opportunità di investimento credibile. Il capitale premia chi ha il coraggio di organizzarsi, di pianificare con metodo, di costruire nel tempo una reputazione di affidabilità. Prepararsi oggi, anche se il fabbisogno finanziario non è immediato, significa posizionarsi in vantaggio domani, quando le finestre di opportunità si apriranno.

L’era in cui “piccolo è bello” sta lasciando spazio a una nuova consapevolezza. Piccolo è bello solo se è di nicchia, se presidia un segmento unico e difendibile, se ha competenze distintive che lo rendono insostituibile. In tutti gli altri casi, chi non evolve rischia di essere travolto. Le imprese che non si strutturano, che non investono in digitalizzazione, sostenibilità e governance, sono destinate a perdere competitività, mercato e, nel medio periodo, anche i presupposti per la propria esistenza.

Il futuro appartiene a chi si organizza, non a chi improvvisa. La preparazione non è un costo, ma una strategia di sopravvivenza e di espansione. E mentre molti ancora esitano, convinti che il cambiamento possa attendere, altri stanno già occupando gli spazi lasciati vuoti da chi si è fermato troppo a lungo.
La finanza alternativa non è il domani: è già qui, e attende le imprese che abbiano il coraggio, la disciplina e la visione per meritarsela.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

08/10/2025

Intelligenza Artificiale: rivoluzione, timori e opportunità

L’Intelligenza Artificiale suscita oggi sentimenti contrastanti. Da un lato vi sono coloro che intravedono nelle sue potenzialità l’alba di una nuova rivoluzione, paragonabile per impatto a quella industriale con l’avvento delle macchine, e a quella digitale che ha trasformato il mondo con i computer e internet. Dall’altro, non mancano voci critiche che temono sviluppi distopici, arrivando a considerarla quasi come il “portale dell’apocalisse”.

Al di là di entusiasmi e timori, è utile affrontare il tema con pragmatismo. L’IA, infatti, può essere vista come un enorme supporto alla creatività e al genio umano, ma non potrà mai sostituirli del tutto. Manca infatti di un ingrediente essenziale: l’intuizione profonda, quella scintilla che nasce dall’esperienza, dalla sensibilità e dalla capacità di vedere connessioni che non erano state ancora tracciate.

Se è vero che l’intuizione rimane prerogativa dell’essere umano, è altrettanto vero che l’IA può rappresentare un alleato formidabile in termini di tempo, precisione e potenzialità. In gergo militare si direbbe che fornisce una “potenza di fuoco” straordinaria, liberando risorse preziose che possono essere indirizzate verso attività a maggior valore aggiunto.

Un esempio concreto proviene da un recente progetto sviluppato nel nostro studio. Abbiamo ideato un servizio innovativo per il welfare aziendale di secondo livello. Concettualmente semplice, ma con un alto grado di complessità operativa: il lavoro richiedeva la combinazione di calcoli attuariali e probabilistici sofisticati, integrati con tariffe variabili legate a più parametri.

In passato, un’attività di questo tipo avrebbe richiesto settimane di analisi manuali, spesso ripetitive e frustranti. Con l’impiego mirato dell’IA, sapendo cosa chiedere e come chiederlo, siamo riusciti a completare il progetto in poche ore, ottenendo un documento completo e coerente, pronto per essere sottoposto ai potenziali fornitori del servizio.

Questo esempio mette in luce uno dei principali benefici dell’Intelligenza Artificiale: la riduzione drastica dei tempi e dei costi di lavorazioni complesse, senza compromettere la qualità. Ma il vero vantaggio va oltre: liberare tempo umano da attività noiose e ripetitive significa dare spazio alla creatività, all’analisi strategica, alla relazione con i clienti e all’innovazione, cioè a tutto ciò che costituisce il cuore pulsante della professionalità.

Chatbot e agenti intelligenti, ad esempio, stanno già mostrando come sia possibile alleggerire le aziende dalla gestione di attività a basso valore aggiunto, rendendo più efficiente l’interazione con clienti e collaboratori.

Come ogni rivoluzione, anche quella legata all’IA porterà cambiamenti nel mondo del lavoro. Alcuni temono una riduzione di posti, ma la storia insegna che l’impatto delle innovazioni tecnologiche si rivela spesso il contrario: un’occasione di evoluzione del lavoro stesso.

La rivoluzione industriale ha liberato l’uomo dalla fatica fisica delle lavorazioni manuali di massa. Quella digitale lo ha emancipato da attività di calcolo e archiviazione alienanti. Oggi, con l’IA, possiamo immaginare un futuro in cui non vi siano più “uomini-macchina” vincolati a compiti ripetitivi, ma professionisti capaci di esprimere competenze, creatività e pensiero critico.

L’Intelligenza Artificiale non va quindi temuta come un nemico né mitizzata come un deus ex machina. È uno strumento. Potente, innovativo, con capacità straordinarie – ma pur sempre uno strumento. Sta a noi, come professionisti, imprenditori e consulenti, imparare a usarlo in modo consapevole e strategico, mettendolo al servizio dello sviluppo e della qualità del lavoro umano.

Come in tutte le rivoluzioni, il vero punto di svolta non è la tecnologia in sé, ma la capacità delle persone di comprenderla, guidarla e integrarla nel proprio percorso evolutivo.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

24/09/2025

Fiducia e trasparenza: il vero capitale del B2B

Nel mondo del B2B la tentazione di piegare le richieste specifiche di un cliente alle proprie esigenze commerciali immediate può apparire come una scorciatoia vincente. Nel breve periodo, infatti, può generare contratti, margini o piccole vittorie tattiche. Tuttavia, a lungo termine, questo atteggiamento si rivela spesso controproducente. Anche il rapporto più solido rischia di incrinarsi quando il cliente percepisce che la sua reale necessità è stata subordinata agli interessi dell’azienda fornitrice. La fiducia si logora e, con essa, la possibilità di costruire una relazione duratura.

Al contrario, ciò che paga sempre è la trasparenza. Dimostrare di aver compreso con chiarezza le esigenze del cliente e rispettarle, anche quando non coincidono con la propria offerta standard, rafforza la relazione. Una proposta commerciale presentata in modo onesto, che espliciti con lucidità punti di forza e limiti, trasmette credibilità e serietà. Il cliente, anche nel caso decida di non acquistare subito, conserverà la sensazione di essere stato ascoltato e rispettato. Questa percezione diventa il terreno fertile per richieste future e consolida un senso di sicurezza nel rivolgersi nuovamente allo stesso interlocutore.

In un contesto in cui la pressione sui prezzi è costante, la dimensione fiduciaria e relazionale diventa un vantaggio competitivo. Studi recenti di Deloitte indicano che nel B2B la fiducia è il primo fattore di scelta del fornitore per il 62% delle aziende, davanti al prezzo e persino alla qualità del prodotto. Un report di Gartner evidenzia inoltre che il 77% dei decision maker preferisce lavorare con fornitori che si dimostrano partner affidabili e trasparenti, anche a fronte di offerte economiche più onerose. Ciò conferma che il valore percepito non si misura solo in termini pecuniari, ma nel capitale relazionale che un’impresa è capace di generare.

Le imprese si trovano dunque di fronte a una scelta strategica: investire nel capitale umano e relazionale, coltivando rapporti di fiducia di lungo periodo, oppure destinare risorse crescenti al marketing con l’obiettivo di attirare continuamente nuovi clienti per compensare le perdite di quelli delusi. È una dinamica costosa e rischiosa, perché nessun mercato è infinito e la competizione è sempre più aggressiva. La fidelizzazione, al contrario, è un moltiplicatore silenzioso: riduce i costi di acquisizione, aumenta il valore medio del cliente e consolida la reputazione aziendale.

In un’economia B2B che si muove verso la saturazione e la frammentazione, la vera leva non è tanto conquistare un cliente oggi, quanto diventare per lui il punto di riferimento affidabile anche domani. Puntare sulla fiducia e sulla trasparenza significa smettere di “comprare attenzione” e iniziare a costruire relazioni che generano valore reciproco, durevoli e resistenti alle oscillazioni del mercato.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

02/09/2025

Il clima aziendale: un fattore strategico spesso trascurato

Nella maggior parte delle piccole e medie imprese, il clima aziendale viene ancora considerato un elemento secondario, quasi marginale, da lasciare al buon senso o alla spontaneità dei singoli. Eppure, numerose ricerche internazionali hanno dimostrato che esiste una relazione diretta tra il benessere percepito dalle persone all’interno dell’organizzazione e indicatori concreti come produttività, turnover, fidelizzazione dei talenti e perfino risultati economici.

Le grandi Corporation lo hanno compreso da tempo. Google, ad esempio, ha investito ingenti risorse nello studio del cosiddetto psychological safety, la sicurezza psicologica dei team, emersa come variabile determinante nei progetti di ricerca interni (Project Aristotle, 2016). Lo studio ha dimostrato che i gruppi in cui le persone si sentono libere di esprimersi senza paura di giudizio o ritorsioni ottengono performance più elevate, maggiore creatività e una collaborazione più fluida.

Un rapporto di Gallup (2022) conferma che le aziende con alti livelli di coinvolgimento dei dipendenti registrano fino al 23% in più di redditività e una riduzione del turnover fino al 43% rispetto alle aziende con basso engagement. Non si tratta quindi di un “di più” etico o valoriale, ma di un fattore che ha un impatto misurabile sul conto economico.

Anche il Workplace Well-Being Index di Deloitte (2021) sottolinea come il benessere organizzativo sia ormai percepito come una leva competitiva: il 61% delle aziende che hanno investito in programmi strutturati di clima e benessere hanno registrato una diminuzione dell’assenteismo e una maggiore attrattività sul mercato del lavoro.

Per le PMI, la sfida è duplice. Da un lato non dispongono di un dipartimento HR dedicato, e spesso la gestione delle persone è affidata a imprenditori o manager già oberati da altre responsabilità. Dall’altro, proprio la dimensione ridottarende il clima aziendale ancora più cruciale: in un contesto con poche decine di collaboratori, un conflitto irrisolto, una leadership poco empatica o una comunicazione carente possono generare effetti immediati e proporzionalmente molto più impattanti.

Un clima aziendale positivo non nasce per caso. Richiede consapevolezza, strumenti e competenze specifiche: dalla capacità di ascolto attivo alla gestione dei feedback, dalla costruzione di percorsi di crescita motivanti fino alla promozione di una cultura della fiducia. Non basta “fare team building” una volta all’anno: occorre creare un ecosistema quotidiano in cui le persone si sentano parte integrante di un progetto e non semplici esecutori di compiti.

Diversi modelli organizzativi, come l’Employee Experience Journey proposto da Gartner, invitano a ripensare la relazione tra collaboratore e impresa come un percorso continuo, che va dal reclutamento fino all’uscita, passando per formazione, riconoscimento, sviluppo e benessere psico-fisico. In questo percorso, il clima rappresenta il terreno su cui germogliano tutte le altre pratiche.

Le PMI che sapranno comprendere questo passaggio avranno un vantaggio competitivo notevole. Investire sul clima significa moltiplicare gli effetti degli investimenti in ogni altra area: dalla tecnologia alla formazione, dal marketing all’innovazione. Un collaboratore motivato, sereno e coinvolto renderà più efficace qualsiasi risorsa messa a disposizione dall’impresa.

In sintesi, il clima aziendale non è un tema “soft”, ma un vero e proprio asset strategico. Trascurarlo equivale a lasciare scoperto un fronte fondamentale; gestirlo con professionalità, al contrario, significa trasformarlo in un acceleratore di crescita sostenibile.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

20/08/2025

Relazioni sincere: il capitale invisibile che sostiene

Nell’epoca della connessione continua, dove i rapporti sembrano moltiplicarsi ma talvolta restano superficiali, il valore delle relazioni sincere mantiene una forza intatta. Questi legami, fondati su fiducia, conoscenza reciproca e autentico interesse per l’altro, non solo arricchiscono la vita personale, ma costituiscono uno degli assi portanti del tessuto sociale ed economico.

Come ricordava Aristotele nella sua Etica Nicomachea, l’amicizia autentica, basata sulla virtù e non sull’utilità, è un bene in sé, capace di sostenere le persone nelle difficoltà e di rendere più gioiosi i momenti di prosperità. Trasposto nel contesto contemporaneo, questo concetto trova un’applicazione concreta anche nel mondo imprenditoriale, in particolare nelle piccole e medie imprese.

Per gli imprenditori delle PMI, la filiera produttiva non è soltanto un insieme di transazioni e contratti: è una rete umana. Fornitori, clienti, collaboratori, consulenti e persino concorrenti possono costituire, se i rapporti sono solidi e sinceri, una vera e propria rete di protezione reciproca. Questo capitale relazionale, come lo definisce Robert D. Putnam nei suoi studi sul “capitale sociale” (Bowling Alone), diventa un fattore di resilienza nelle crisi, una fonte di opportunità nei momenti di crescita e un moltiplicatore di stabilità nel lungo termine.

Costruire tale rete richiede tempo, costanza e un approccio genuinamente umano alle relazioni d’affari. Non basta la formalità di un contratto o l’occasionalità di un incontro di networking: servono anni di interazioni oneste, di rispetto degli impegni, di ascolto autentico e di collaborazione disinteressata. La fiducia, come affermava Stephen M.R. Covey in The Speed of Trust, è una leva che accelera ogni processo e riduce i costi nascosti delle relazioni, ma non si improvvisa: si coltiva.

Ecco perché anche momenti apparentemente lontani dalla routine aziendale, come le ferie estive, possono diventare un’occasione preziosa per ravvivare questi legami. Un incontro informale, una cena condivisa, una visita cordiale a un partner o un fornitore, sono gesti che rinforzano il filo umano che tiene insieme la rete. Durante una pausa dalle pressioni quotidiane, le persone sono più aperte a conversazioni autentiche e meno vincolate dalle urgenze operative: il terreno ideale per far crescere fiducia e comprensione reciproca.

In un mondo dove la competizione è globale e spesso spietata, la dimensione umana delle relazioni diventa un vantaggio competitivo intangibile ma potentissimo. Chi coltiva rapporti sinceri, basati su rispetto e mutuo sostegno, non solo rende la propria vita meno gravosa e più stabile, ma costruisce un patrimonio di valore inestimabile per la propria impresa.

Come ricordava lo scrittore e saggista Antoine de Saint-Exupéry:

“L’unico lusso vero è quello delle relazioni umane.”

E, proprio come ogni lusso autentico, richiede cura, tempo e dedizione.

Noi ci siamo, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

13/08/2025

Allineamento strategico: spina dorsale delle PMI

L’allineamento strategico in una PMI non è unicamente un esercizio teorico, ma un elemento di coesione che permea l’intero funzionamento aziendale: dalla formulazione della missione fino all’esperienza post-vendita. Quando missione dichiarata, messaggi rivolti ai mercati e comportamenti concreti si intrecciano in un unico fil rouge, si genera una dinamica virtuosa che rinforza la credibilità dell’azienda, alimenta un clima di fiducia tra dipendenti e fornitori e consolida la relazione con il cliente finale.

Internamente, questa coerenza si manifesta attraverso la chiarezza degli obiettivi strategici: ogni collaboratore percepisce non solo il “cosa” l’impresa vuole realizzare, ma anche il “perché” e il “come”. In un contesto in cui spesso si tende a improvvisare decisioni e processi, disporre di un quadro integrato – che leghi i valori alla pratica quotidiana – diventa un punto di riferimento essenziale. Tale quadro, lungi dall’essere un vincolo formale, offre piuttosto una bussola in grado di orientare le scelte operative, dando senso e direzione a ogni azione.

Sul fronte esterno, il pubblico percepisce la coerenza attraverso le esperienze di contatto con l’azienda: la chiarezza comunicativa nei materiali di marketing, la qualità tangibile di prodotti e servizi, la trasparenza nelle modalità di vendita e l’efficacia delle politiche di assistenza post-vendita. Quando questi elementi sono perfettamente armonizzati, il cliente sviluppa un’aspettativa stabile e realistica, che si traduce in un maggior grado di fedeltà e nella propensione a raccomandare il brand. Viceversa, basta un contrasto – per esempio un claim eccessivamente generico supportato da un servizio clienti lento o frustrante – per innescare un rapido deterioramento della reputazione.

La filiera interna–esterna si comporta dunque come un sistema interconnesso: un disallineamento percepito a livello operativo – ad esempio un ritardo nelle consegne o una comunicazione confusa – riverbera immediatamente sulla percezione complessiva, colpendo tanto la motivazione delle risorse interne quanto la soddisfazione del cliente. L’effetto domino di un comportamento incoerente può tradursi in inefficienze, sprechi di immagine e, infine, in una perdita di quote di mercato.

Lo strategic management, in questo contesto, non si limita a stilare piani o a monitorare indicatori finanziari, ma agisce da cornice di senso: seleziona e integra strumenti di analisi che considerano non solo i risultati economici, ma anche le dinamiche relazionali con gli stakeholder, le performance qualitative e il grado di coerenza interna. È attraverso questo approccio olistico che un’impresa può riconoscere tempestivamente eventuali divergenze, comprenderne le cause e riallineare, senza soluzione di continuità, visione, azioni e risultati.

La solidità di una PMI non dipende esclusivamente dalla capacità di rispondere alle esigenze di mercato, bensì dalla sua abilità nel dar vita a un ecosistema in cui ogni componente – missione, processi, comunicazione, prodotto, servizio e post-vendita – lavori in sintonia. È questa sintonia che traccia la rotta tra i desideri dell’imprenditore e gli obiettivi di crescita, rendendo l’azienda non soltanto resistente alle criticità, ma capace di trasformarle in nuove opportunità.