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La non compliance costa cara: la vera tutela delle PMI passa dagli adeguati assetti

Spesso, soprattutto nelle PMI, si fa strada una logica di breve periodo: se una scadenza normativa non prevede multe salate, o se pagare la sanzione “costa meno” che adeguarsi, si tende a rimandare. È una tentazione comprensibile, ma si rivela una visione miope sia in termini economici che giuridici. La non-compliance non è mai neutra; è piuttosto un costo occulto che emerge proprio quando l’azienda ha più bisogno di protezione e strumenti per svilupparsi. Si traduce in una minore “bancabilità”, in un accesso più difficile, se non impossibile, a finanziamenti agevolati, in condizioni assicurative peggiorative e, nei casi più seri, in responsabilità personali per gli amministratori.

Bisogna vedere il perimetro normativo non come un orpello burocratico, ma come il lessico di base con cui dialogano banche, investitori e assicuratori. Il Codice Civile, dopo la riforma della crisi d’impresa, impone all’imprenditore di dotarsi di “adeguati assetti organizzativi” per rilevare tempestivamente i segnali di difficoltà e garantire la continuità. Non è un’opzione, è un preciso dovere di gestione. Disattenderlo significa esporsi a rilievi sulla qualità del governo societario e, in caso di deterioramento, doversi giustificare sul perché quei presìdi non esistessero quando servivano. Questa cornice dialoga direttamente con la responsabilità degli amministratori: in situazioni di crisi, l’assenza di controlli adeguati diventa il terreno per azioni di responsabilità, creando un ponte pericoloso tra le difficoltà dell’impresa e il patrimonio personale di chi la amministra. La giurisprudenza è chiara: per difendersi serve la prova di assetti effettivi e di condotte diligenti, non di mere adempienze cartolari.

Sul fronte credito, il sistema bancario valuta ormai non solo i numeri, ma la qualità dei processi, dei controlli interni e dei dati. Elementi come la tracciabilità, la cybersecurity e la compliance integrati nei flussi aziendali influenzano direttamente il merito creditizio, orientando i tassi di interesse e le condizioni del finanziamento. Al contrario, lacune organizzative alzano la rischiosità percepita, riducono la capienza e allungano i tempi istruttori. La stessa logica permea l’accesso ai canali agevolati, dove regolarità documentale e una governance trasparente sono prerequisiti sostanziali. Il discorso vale in modo speculare per l’assicurabilità corporate. Le compagnie, nel definire condizioni e massimali, valutano il profilo di rischio tecnico e gestionale: organizzazione della sicurezza, procedure, business continuity. Un’azienda che presidia i propri obblighi negozia meglio e riduce le frizioni in liquidazione sinistri; una che li trascura accumula franchigie più alte, esclusioni di copertura e potenziale contenzioso.

Accanto ai doveri civilistici, è cruciale metabolizzare nella pratica quotidiana i pilastri della compliance. La responsabilità amministrativa degli enti, prevenibile con un Modello 231 effettivo, crea un nesso diretto tra reati e carenze organizzative, rischiando di interrompere rapporti con clienti qualificati e stazioni appaltanti. La protezione dei dati personali, nella prospettiva del GDPR, obbliga a politiche, registri e sicurezza informatica proporzionati, con impatti reputazionali ed economici severi se si interviene solo a valle di una violazione. La salute e sicurezza sul lavoro, presidio non delegabile, parla la lingua delle responsabilità penali e dei costi indiretti di fermi e infortuni. In tutti questi ambiti, investire in prevenzione costa meno che rincorrere i problemi a danno avvenuto.

Si comprende allora perché la “strada virtuosa” non sia un vezzo consulenziale, ma un fattore competitivo. Mettere a terra assetti adeguati significa mappare i processi, definire ruoli, integrare la compliance nei flussi digitali e dare evidenza di una cultura del controllo. Non serve per forza un manager full-time; una regia esterna qualificata e frazionata può introdurre metodo e disciplina senza appesantire la struttura. La differenza la fa un’esecuzione pragmatica: piani semplici, responsabilità chiare, verifiche periodiche. Quando questa impostazione matura, i benefici sono misurabili: un costo del capitale più basso per effetto del de-risking, tempi di delibera più rapidi grazie a dati affidabili, condizioni assicurative più efficienti e una maggiore appetibilità per i clienti strutturati. Soprattutto, l’imprenditore riduce la propria esposizione personale, perché può dimostrare, con atti e tracciati, di aver governato l’azienda con la diligenza richiesta.

In definitiva, la mancanza di compliance non è una scorciatoia, ma una tassa occulta sulla crescita e sulla resilienza. Le PMI che scelgono di organizzarsi, documentare e migliorare conquistano un diritto di cittadinanza nei mercati della finanza e delle coperture, e si mettono al riparo da quell’area grigia in cui i problemi operativi diventano, troppo spesso, responsabilità personali. La strada esiste ed è percorribile con costi sostenibili: richiede consapevolezza, metodo e l’umiltà di farsi affiancare quando serve. È la miglior polizza sulla continuità del business e sulla serenità di chi lo guida.

Noi siamo pronti e compliant, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

22/10/2025

Il futuro della finanza è ora

Negli ultimi anni il panorama della finanza d’impresa è cambiato radicalmente. Le fonti tradizionali, come il credito bancario, hanno progressivamente lasciato spazio a nuove modalità di raccolta fondi che consentono alle imprese di finanziare la propria crescita in modo più diretto, trasparente e sostenibile. Tra queste, il crowdfunding , sia nella forma equity che lending, e i minibond rappresentano oggi una delle frontiere più dinamiche e promettenti della finanza moderna per le PMI italiane.

Tuttavia, è necessario sfatare un mito diffuso: quello secondo cui queste forme di finanziamento siano più “semplici” o “accessibili” rispetto al canale bancario. La realtà è esattamente opposta. Se la banca può basare la propria valutazione anche su relazioni consolidate o garanzie personali, il mercato, fatto di investitori, fondi, piattaforme e analisti indipendenti, richiede trasparenza, affidabilità e coerenza. In altre parole, l’impresa deve essere “leggibile” e dimostrarsi finanziariamente sana, organizzativamente solida e strategicamente orientata alla crescita.

Chi vuole accedere a queste forme di finanza alternativa deve quindi presentarsi con conti perfettamente in ordine, un piano industriale chiaro e un business plan credibile, basato su numeri verificabili e su una struttura coerente con la propria realtà. Non si tratta di vendere un sogno, ma di costruire fiducia attraverso la solidità dei dati e la visione imprenditoriale. A questo si aggiunge un altro requisito spesso sottovalutato: la compliance certificata agli obblighi di legge, che include l’adozione di adeguati assetti organizzativi, sistemi di controllo interno, e processi di risk management che tutelino investitori e stakeholders.

In questo contesto, la finanza alternativa non è una scorciatoia per chi vuole “tappare un buco”, ma un potente acceleratore per chi ha un progetto di crescita autentico. Esistono oggi fiumi di capitali pronti a essere investiti: investitori privati, fondi specializzati, piattaforme di crowdfunding e operatori istituzionali sono alla ricerca di PMI virtuose, capaci di dimostrare una governance solida e una visione evolutiva. Il denaro non manca: manca piuttosto la preparazione delle imprese ad accoglierlo.

Il messaggio per l’imprenditore è chiaro: non si tratta di chiedere un favore al mercato, ma di offrire un’opportunità di investimento credibile. Il capitale premia chi ha il coraggio di organizzarsi, di pianificare con metodo, di costruire nel tempo una reputazione di affidabilità. Prepararsi oggi, anche se il fabbisogno finanziario non è immediato, significa posizionarsi in vantaggio domani, quando le finestre di opportunità si apriranno.

L’era in cui “piccolo è bello” sta lasciando spazio a una nuova consapevolezza. Piccolo è bello solo se è di nicchia, se presidia un segmento unico e difendibile, se ha competenze distintive che lo rendono insostituibile. In tutti gli altri casi, chi non evolve rischia di essere travolto. Le imprese che non si strutturano, che non investono in digitalizzazione, sostenibilità e governance, sono destinate a perdere competitività, mercato e, nel medio periodo, anche i presupposti per la propria esistenza.

Il futuro appartiene a chi si organizza, non a chi improvvisa. La preparazione non è un costo, ma una strategia di sopravvivenza e di espansione. E mentre molti ancora esitano, convinti che il cambiamento possa attendere, altri stanno già occupando gli spazi lasciati vuoti da chi si è fermato troppo a lungo.
La finanza alternativa non è il domani: è già qui, e attende le imprese che abbiano il coraggio, la disciplina e la visione per meritarsela.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

08/10/2025

Come gestire le insolvenze dei clienti in una PMI

Gestire le insolvenze dei clienti è una delle sfide più delicate per una piccola o media impresa. Non si tratta soltanto di un problema di liquidità o di recupero crediti, ma di un aspetto cruciale che riguarda la solidità organizzativa e la credibilità dell’azienda sul mercato. Avere una procedura chiara, condivisa tra l’area amministrativa e quella commerciale, significa proteggere la continuità aziendale e rispettare gli obblighi previsti dagli “adeguati assetti organizzativi” richiamati dall’articolo 2086 del Codice Civile e dal Codice della Crisi d’impresa introdotto con il D.Lgs. 14/2019.

Un aspetto poco considerato è che spesso le insolvenze non arrivano da clienti occasionali, bensì da quelli storici, proprio quelli di cui ci si fida maggiormente. Le statistiche confermano questa dinamica: analisi condotte da Cribis D&B e da Cerved indicano che oltre il 60% dei ritardi nei pagamenti deriva da clienti consolidati. È la cosiddetta “trappola della fiducia”, che spinge l’imprenditore o il commerciale a soprassedere di fronte a un mancato pagamento, convinto che il cliente regolarizzerà la situazione spontaneamente. Ma un ritardo, se non affrontato subito con chiarezza, rischia di trasformarsi in un vero e proprio insoluto, con effetti diretti e spesso gravi sulla liquidità aziendale. Questo fenomeno è reso ancora più rilevante dal fatto che in Italia i tempi medi di pagamento effettivo sono di circa 52 giorni, a fronte dei 30 previsti dal D.Lgs. 231/2002 che ha recepito la Direttiva europea sui ritardi di pagamento. Per le PMI, che vivono di cassa e non dispongono di riserve finanziarie strutturate, l’impatto può diventare critico.

Per tutelarsi è necessario disporre di una procedura interna ben definita, che guidi con coerenza e gradualità sia il reparto commerciale sia quello amministrativo. Quando un cliente non rispetta una scadenza, è utile che il primo approccio venga gestito dal commerciale, che mantiene un rapporto più diretto e informale con il cliente e può contattarlo per un richiamo cordiale ma fermo. Se il pagamento continua a non arrivare, deve subentrare l’amministrazione con un sollecito formale, inviato tramite canali tracciabili come PEC o raccomandata con ricevuta di ritorno. Questo passaggio è essenziale non solo per dare un segnale di serietà, ma anche per creare la base probatoria necessaria qualora si rendesse indispensabile un’azione giudiziaria.

È altrettanto importante stabilire con chiarezza che nessuna nuova fornitura deve essere concessa a un cliente insolvente, per non aggravare ulteriormente il danno economico. Qualora l’azienda ritenga di voler salvaguardare la relazione commerciale, si può proporre un piano di rientro che consenta al cliente di sanare gradualmente la propria posizione. Il rispetto di questo piano può aprire la strada alla ripresa dei rapporti, ma solo con condizioni più rigide, come pagamenti anticipati o acconti consistenti fino al rientro completo. Se neppure questa soluzione produce risultati, resta necessario ricorrere agli strumenti legali. Il decreto ingiuntivo, previsto dagli articoli 633 e seguenti del Codice di procedura civile, rappresenta lo strumento più efficace per ottenere in tempi relativamente rapidi un titolo esecutivo, a condizione che l’impresa disponga di documentazione completa e opponibile come contratti, fatture e documenti di trasporto firmati.

L’adozione di una procedura di questo tipo non serve solo a ridurre gli insoluti. Rende l’impresa più credibile agli occhi di banche, finanziatori e partner commerciali, che in sede di valutazione del merito creditizio considerano molto positivamente la presenza di sistemi strutturati di gestione del credito. Inoltre, una gestione trasparente e ordinata è requisito essenziale per accedere a strumenti di protezione come l’assicurazione del credito commerciale, che consente di mitigare l’impatto degli insoluti sul bilancio e di migliorare il rating aziendale.

In definitiva, l’insolvenza non deve essere vista come un imprevisto casuale ma come una variabile fisiologica del fare impresa. Trattarla come tale significa adottare regole precise, condivise e documentate, capaci di guidare con coerenza l’azienda dal primo sollecito informale fino all’eventuale azione legale. Una PMI che si muove in questo modo tutela la propria liquidità, rispetta le prescrizioni normative sugli adeguati assetti e costruisce una reputazione di solidità e affidabilità. La gestione del credito, così intesa, non è un mero adempimento amministrativo, ma diventa uno strumento di governo d’impresa, fondamentale per garantire continuità, equilibrio finanziario e credibilità sul mercato.

Noi siamo pronti, voi?

Articolo di Marco Simontacchi

30/09/2025

Il tempo della conformità non aspetta: perché le PMI non possono più rimandare le certificazioni

Per molte PMI italiane, il rinvio di due anni dell’obbligo di redazione del bilancio di sostenibilità, il cosiddetto bilancio ESG, è stato accolto come una boccata d’ossigeno. Un sospiro di sollievo, quasi una proroga delle preoccupazioni. Ma questa apparente tregua rischia di essere un’illusione pericolosa. Perché, al di là della rendicontazione ESG, l’ecosistema normativo e competitivo in cui le piccole e medie imprese si muovono continua ad evolvere con ritmo serrato, e con esso le richieste che clienti, grandi gruppi industriali e mercati impongono a chi voglia restare parte della catena di fornitura.

Chi lavora a stretto contatto con le filiere produttive sa bene che oggi le certificazioni non sono più un “plus”, ma la chiave d’accesso al mercato. Alcune sono obbligatorie per legge, basti pensare a quelle legate alla sicurezza dei luoghi di lavoro, alla qualità dei processi o all’ambiente, mentre altre, pur non essendo normativamente imposte, sono diventate imprescindibili per continuare a collaborare con clienti di peso, in particolare nel manifatturiero e nei servizi avanzati. Non si tratta solo di ISO 9001 o ISO 45001, ma anche di certificazioni come UNI/PdR 125 sulla parità di genere, i sistemi di gestione ambientale ISO 14001 o EMAS, la certificazione SA8000 sulla responsabilità sociale, fino ad arrivare agli standard di sicurezza informatica come ISO/IEC 27001 o ai modelli organizzativi 231 per la responsabilità amministrativa.

A questo quadro si aggiungono nuovi adempimenti come l’obbligo di adozione del canale di segnalazione whistleblowing, la compliance GDPR ormai imprescindibile per chi gestisce dati sensibili, e le politiche di parità di genere che, oltre ad essere sempre più richieste dai grandi clienti, possono aprire l’accesso a punteggi premiali nei bandi pubblici. Non va dimenticato che esistono importanti incentivi per chi investe in questi percorsi: sgravi contributivi INPS fino a 50.000 euro per le aziende che ottengono la certificazione UNI/PdR 125, riduzioni fino al 28% del premio INAIL per le imprese certificate ISO 45001 o che adottano sistemi di prevenzione avanzata, oltre a bandi regionali che cofinanziano fino al 50% i costi di certificazione. In alcune realtà, questi benefici non solo compensano i costi, ma generano un vantaggio economico netto, migliorando il cash flow e rafforzando la competitività.

Il problema è che ottenere queste certificazioni non è un atto immediato. Richiede analisi, audit, revisione dei processi, documentazione e, spesso, un cambiamento culturale all’interno dell’impresa. Non è raro che servano mesi, a volte oltre un anno, per portare a termine l’iter, soprattutto se l’azienda parte da zero. E qui sta il rischio più sottovalutato: attendere l’ultimo momento significa esporsi alla possibilità di trovarsi fuori gioco da un giorno all’altro, perché un grande cliente decide di accettare solo fornitori certificati. Quando l’urgenza arriva, i tempi tecnici non si possono comprimere, e l’impresa rischia di perdere commesse vitali senza avere il tempo materiale per adeguarsi.

A rendere il quadro ancora più insidioso è la presenza, sul mercato, di offerte che promettono “certificazioni” rapide e a basso costo. In realtà, molte di queste non hanno alcun valore legale: si limitano a rilasciare un documento che attesta che l’azienda avrebbe, in teoria, i requisiti per ottenere una certificazione, ma senza passare da un ente accreditato. È un po’ come dichiarare di avere la patente senza aver mai fatto l’esame di guida: può trarre in inganno l’imprenditore che cerca scorciatoie, ma non ha alcun peso né davanti a un cliente né, peggio ancora, davanti a un tribunale.

Le grandi imprese, soprattutto quelle quotate o multinazionali, non si accontentano di queste “pseudo-certificazioni”: chiedono copie ufficiali, verificano i codici di accreditamento, talvolta consultano direttamente gli enti certificatori per confermare la validità. Per una PMI che scopre troppo tardi di aver investito tempo e denaro in documenti privi di valore, il danno è doppio: si perde la fiducia del cliente e si deve ricominciare da capo, con costi e ritardi ancora maggiori.

Per questo oggi, anche senza l’obbligo immediato del bilancio ESG, la strategia vincente per le PMI è quella di anticipare i tempi. Valutare per tempo quali certificazioni siano davvero necessarie per il proprio settore, pianificare gli investimenti, coinvolgere le persone in un percorso di formazione e di consapevolezza. Una certificazione ben gestita non è solo un costo, ma diventa un vantaggio competitivo: apre porte, qualifica l’azienda, migliora i processi interni e rafforza la reputazione.

Il rinvio del bilancio ESG può dare l’illusione di avere più tempo. In realtà, il tempo per le PMI è adesso: perché restare certificati, o diventarlo, è la condizione minima per non essere tagliati fuori dal mercato.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

16/09/2025

Fiducia e trasparenza: il vero capitale del B2B

Nel mondo del B2B la tentazione di piegare le richieste specifiche di un cliente alle proprie esigenze commerciali immediate può apparire come una scorciatoia vincente. Nel breve periodo, infatti, può generare contratti, margini o piccole vittorie tattiche. Tuttavia, a lungo termine, questo atteggiamento si rivela spesso controproducente. Anche il rapporto più solido rischia di incrinarsi quando il cliente percepisce che la sua reale necessità è stata subordinata agli interessi dell’azienda fornitrice. La fiducia si logora e, con essa, la possibilità di costruire una relazione duratura.

Al contrario, ciò che paga sempre è la trasparenza. Dimostrare di aver compreso con chiarezza le esigenze del cliente e rispettarle, anche quando non coincidono con la propria offerta standard, rafforza la relazione. Una proposta commerciale presentata in modo onesto, che espliciti con lucidità punti di forza e limiti, trasmette credibilità e serietà. Il cliente, anche nel caso decida di non acquistare subito, conserverà la sensazione di essere stato ascoltato e rispettato. Questa percezione diventa il terreno fertile per richieste future e consolida un senso di sicurezza nel rivolgersi nuovamente allo stesso interlocutore.

In un contesto in cui la pressione sui prezzi è costante, la dimensione fiduciaria e relazionale diventa un vantaggio competitivo. Studi recenti di Deloitte indicano che nel B2B la fiducia è il primo fattore di scelta del fornitore per il 62% delle aziende, davanti al prezzo e persino alla qualità del prodotto. Un report di Gartner evidenzia inoltre che il 77% dei decision maker preferisce lavorare con fornitori che si dimostrano partner affidabili e trasparenti, anche a fronte di offerte economiche più onerose. Ciò conferma che il valore percepito non si misura solo in termini pecuniari, ma nel capitale relazionale che un’impresa è capace di generare.

Le imprese si trovano dunque di fronte a una scelta strategica: investire nel capitale umano e relazionale, coltivando rapporti di fiducia di lungo periodo, oppure destinare risorse crescenti al marketing con l’obiettivo di attirare continuamente nuovi clienti per compensare le perdite di quelli delusi. È una dinamica costosa e rischiosa, perché nessun mercato è infinito e la competizione è sempre più aggressiva. La fidelizzazione, al contrario, è un moltiplicatore silenzioso: riduce i costi di acquisizione, aumenta il valore medio del cliente e consolida la reputazione aziendale.

In un’economia B2B che si muove verso la saturazione e la frammentazione, la vera leva non è tanto conquistare un cliente oggi, quanto diventare per lui il punto di riferimento affidabile anche domani. Puntare sulla fiducia e sulla trasparenza significa smettere di “comprare attenzione” e iniziare a costruire relazioni che generano valore reciproco, durevoli e resistenti alle oscillazioni del mercato.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

02/09/2025

Il clima aziendale: un fattore strategico spesso trascurato

Nella maggior parte delle piccole e medie imprese, il clima aziendale viene ancora considerato un elemento secondario, quasi marginale, da lasciare al buon senso o alla spontaneità dei singoli. Eppure, numerose ricerche internazionali hanno dimostrato che esiste una relazione diretta tra il benessere percepito dalle persone all’interno dell’organizzazione e indicatori concreti come produttività, turnover, fidelizzazione dei talenti e perfino risultati economici.

Le grandi Corporation lo hanno compreso da tempo. Google, ad esempio, ha investito ingenti risorse nello studio del cosiddetto psychological safety, la sicurezza psicologica dei team, emersa come variabile determinante nei progetti di ricerca interni (Project Aristotle, 2016). Lo studio ha dimostrato che i gruppi in cui le persone si sentono libere di esprimersi senza paura di giudizio o ritorsioni ottengono performance più elevate, maggiore creatività e una collaborazione più fluida.

Un rapporto di Gallup (2022) conferma che le aziende con alti livelli di coinvolgimento dei dipendenti registrano fino al 23% in più di redditività e una riduzione del turnover fino al 43% rispetto alle aziende con basso engagement. Non si tratta quindi di un “di più” etico o valoriale, ma di un fattore che ha un impatto misurabile sul conto economico.

Anche il Workplace Well-Being Index di Deloitte (2021) sottolinea come il benessere organizzativo sia ormai percepito come una leva competitiva: il 61% delle aziende che hanno investito in programmi strutturati di clima e benessere hanno registrato una diminuzione dell’assenteismo e una maggiore attrattività sul mercato del lavoro.

Per le PMI, la sfida è duplice. Da un lato non dispongono di un dipartimento HR dedicato, e spesso la gestione delle persone è affidata a imprenditori o manager già oberati da altre responsabilità. Dall’altro, proprio la dimensione ridottarende il clima aziendale ancora più cruciale: in un contesto con poche decine di collaboratori, un conflitto irrisolto, una leadership poco empatica o una comunicazione carente possono generare effetti immediati e proporzionalmente molto più impattanti.

Un clima aziendale positivo non nasce per caso. Richiede consapevolezza, strumenti e competenze specifiche: dalla capacità di ascolto attivo alla gestione dei feedback, dalla costruzione di percorsi di crescita motivanti fino alla promozione di una cultura della fiducia. Non basta “fare team building” una volta all’anno: occorre creare un ecosistema quotidiano in cui le persone si sentano parte integrante di un progetto e non semplici esecutori di compiti.

Diversi modelli organizzativi, come l’Employee Experience Journey proposto da Gartner, invitano a ripensare la relazione tra collaboratore e impresa come un percorso continuo, che va dal reclutamento fino all’uscita, passando per formazione, riconoscimento, sviluppo e benessere psico-fisico. In questo percorso, il clima rappresenta il terreno su cui germogliano tutte le altre pratiche.

Le PMI che sapranno comprendere questo passaggio avranno un vantaggio competitivo notevole. Investire sul clima significa moltiplicare gli effetti degli investimenti in ogni altra area: dalla tecnologia alla formazione, dal marketing all’innovazione. Un collaboratore motivato, sereno e coinvolto renderà più efficace qualsiasi risorsa messa a disposizione dall’impresa.

In sintesi, il clima aziendale non è un tema “soft”, ma un vero e proprio asset strategico. Trascurarlo equivale a lasciare scoperto un fronte fondamentale; gestirlo con professionalità, al contrario, significa trasformarlo in un acceleratore di crescita sostenibile.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

20/08/2025

Allineamento strategico: spina dorsale delle PMI

L’allineamento strategico in una PMI non è unicamente un esercizio teorico, ma un elemento di coesione che permea l’intero funzionamento aziendale: dalla formulazione della missione fino all’esperienza post-vendita. Quando missione dichiarata, messaggi rivolti ai mercati e comportamenti concreti si intrecciano in un unico fil rouge, si genera una dinamica virtuosa che rinforza la credibilità dell’azienda, alimenta un clima di fiducia tra dipendenti e fornitori e consolida la relazione con il cliente finale.

Internamente, questa coerenza si manifesta attraverso la chiarezza degli obiettivi strategici: ogni collaboratore percepisce non solo il “cosa” l’impresa vuole realizzare, ma anche il “perché” e il “come”. In un contesto in cui spesso si tende a improvvisare decisioni e processi, disporre di un quadro integrato – che leghi i valori alla pratica quotidiana – diventa un punto di riferimento essenziale. Tale quadro, lungi dall’essere un vincolo formale, offre piuttosto una bussola in grado di orientare le scelte operative, dando senso e direzione a ogni azione.

Sul fronte esterno, il pubblico percepisce la coerenza attraverso le esperienze di contatto con l’azienda: la chiarezza comunicativa nei materiali di marketing, la qualità tangibile di prodotti e servizi, la trasparenza nelle modalità di vendita e l’efficacia delle politiche di assistenza post-vendita. Quando questi elementi sono perfettamente armonizzati, il cliente sviluppa un’aspettativa stabile e realistica, che si traduce in un maggior grado di fedeltà e nella propensione a raccomandare il brand. Viceversa, basta un contrasto – per esempio un claim eccessivamente generico supportato da un servizio clienti lento o frustrante – per innescare un rapido deterioramento della reputazione.

La filiera interna–esterna si comporta dunque come un sistema interconnesso: un disallineamento percepito a livello operativo – ad esempio un ritardo nelle consegne o una comunicazione confusa – riverbera immediatamente sulla percezione complessiva, colpendo tanto la motivazione delle risorse interne quanto la soddisfazione del cliente. L’effetto domino di un comportamento incoerente può tradursi in inefficienze, sprechi di immagine e, infine, in una perdita di quote di mercato.

Lo strategic management, in questo contesto, non si limita a stilare piani o a monitorare indicatori finanziari, ma agisce da cornice di senso: seleziona e integra strumenti di analisi che considerano non solo i risultati economici, ma anche le dinamiche relazionali con gli stakeholder, le performance qualitative e il grado di coerenza interna. È attraverso questo approccio olistico che un’impresa può riconoscere tempestivamente eventuali divergenze, comprenderne le cause e riallineare, senza soluzione di continuità, visione, azioni e risultati.

La solidità di una PMI non dipende esclusivamente dalla capacità di rispondere alle esigenze di mercato, bensì dalla sua abilità nel dar vita a un ecosistema in cui ogni componente – missione, processi, comunicazione, prodotto, servizio e post-vendita – lavori in sintonia. È questa sintonia che traccia la rotta tra i desideri dell’imprenditore e gli obiettivi di crescita, rendendo l’azienda non soltanto resistente alle criticità, ma capace di trasformarle in nuove opportunità.

Quando l’insuccesso diventa un segnale: visione, atteggiamento e innovazione

Nel percorso imprenditoriale, è fisiologico imbattersi in ostacoli, errori di valutazione, mercati che cambiano, o semplicemente in iniziative che, nonostante l’impegno profuso, non generano i risultati attesi. Tuttavia, ciò che fa realmente la differenza non è tanto l’insuccesso in sé, quanto il modo in cui viene interpretato e affrontato.

Spesso, dopo ripetuti fallimenti o stagnazioni, gli imprenditori si polarizzano su due reazioni opposte: da un lato, l’atteggiamento rinunciatario, la rassegnazione mascherata da prudenza, che porta a ridurre drasticamente gli sforzi e a congelare lo sviluppo dell’azienda. Dall’altro lato, c’è chi risponde con ostinazione e spirito di sfida, rilanciando con ancora più forza sul medesimo approccio, magari con maggiori investimenti, nella convinzione che la perseveranza prima o poi premierà.

Purtroppo, entrambi gli approcci, se non accompagnati da una riflessione profonda, rischiano di produrre esiti simili: uno spreco di potenziale. Da un lato si rinuncia a cercare soluzioni, dall’altro si insiste su percorsi già rivelatisi inefficaci. Il punto centrale è che, in assenza di un cambiamento di visione e di paradigma, difficilmente si potranno ottenere risultati diversi da quelli del passato.

La vera “ricerca e sviluppo”, infatti, non è confinata ai laboratori tecnologici o alla progettazione di nuovi prodotti. È, prima ancora, un esercizio di apertura mentale, di revisione critica del proprio approccio, di disponibilità a mettere in discussione abitudini consolidate. È un processo che coinvolge la cultura aziendale, le modalità decisionali, la capacità di guardare oltre il proprio perimetro.

In questa prospettiva, l’innovazione non è solo un fatto tecnico, ma una questione di leadership e di visione. Riconoscere che l’attuale assetto organizzativo, o la squadra decisionale, potrebbe non avere più lo slancio o la neutralità necessaria per immaginare un futuro diverso è un atto di responsabilità, non di debolezza.

Proprio per questo, nei momenti di impasse, il contributo di figure esterne, professionisti esperti e capaci di leggere la realtà aziendale con occhi nuovi, diventa un’opportunità preziosa. Soprattutto se provengono da contesti diversi, portando con sé contaminazioni culturali, approcci strategici e modelli operativi alternativi. Il valore aggiunto non sta tanto nella “ricetta miracolosa”, quanto nell’aprire prospettive diverse, nel generare nuovi interrogativi, nel rompere i vincoli autoimposti dalle dinamiche aziendali sedimentate nel tempo.

L’introduzione di uno sguardo esterno favorisce la creazione di uno spazio di riflessione strategica, libera da zavorre emotive o da interessi consolidati. E spesso basta un piccolo cambio di prospettiva per rimettere in moto il sistema: un’idea che riaccende l’entusiasmo, una lettura alternativa dei dati, una nuova narrazione identitaria capace di ispirare i collaboratori.

In definitiva, il fallimento non deve essere né accettato passivamente né sfidato ciecamente, ma ascoltato come segnale di una trasformazione necessaria. Non sempre si tratta di cambiare prodotto, servizio o tecnologia. A volte è sufficiente cambiare sguardo. E per farlo, avere il coraggio di aprire le porte a chi, da fuori, può aiutare a ritrovare la rotta.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

01/07/2025

Malo esse quam videri: il nuovo mantra del marketing

Negli ultimi anni si sta assistendo a un mutamento profondo nelle dinamiche tra imprese e consumatori, un cambiamento che non riguarda soltanto il modo in cui i prodotti vengono presentati, ma che tocca l’essenza stessa del rapporto fiduciario tra brand e pubblico. Per oltre un decennio, il mercato globale è stato dominato da un approccio fortemente incentrato sul marketing emozionale, dove la priorità era spesso catturare l’attenzione a ogni costo, anche a scapito della trasparenza. L’estetica, la narrazione, le strategie persuasive e la costruzione di identità di marca hanno assunto un ruolo centrale, al punto che la realtà del prodotto o servizio passava in secondo piano. L’obiettivo era sedurre, persuadere, convincere, spesso con una sofisticazione tale da rendere indistinguibili le promesse dalla realtà.

Tuttavia, proprio questa eccessiva esposizione a messaggi costruiti, talvolta artefatti o persino ingannevoli, ha progressivamente eroso la fiducia dei consumatori. I segnali in questo senso sono numerosi e convergenti. L’Edelman Trust Barometer 2024, un’analisi annuale che misura la fiducia nelle istituzioni, ha rivelato che solo il 42% dei consumatori globali si fida della pubblicità tradizionale o delle comunicazioni corporate. Ancora più significativo è il dato secondo cui il 60% degli intervistati ha dichiarato di aver perso fiducia in un marchio che in precedenza apprezzava, proprio a causa della discrepanza tra la narrazione proposta e l’effettiva esperienza d’uso.

Il fenomeno ha radici profonde, alimentate anche dall’evoluzione del marketing digitale. Le piattaforme social hanno offerto spazi illimitati per la diffusione di messaggi seducenti, ma spesso scollegati da qualunque verifica empirica. Tra il 2020 e il 2024, il costo per acquisizione (CPA) medio su piattaforme come Facebook e Instagram è aumentato di circa il 35%, mentre i tassi di conversione effettivi sono calati. Questo scollamento segnala chiaramente una crescente resistenza del pubblico: l’overload di messaggi pubblicitari genera saturazione cognitiva e, infine, disaffezione.

Anche sul piano regolamentare il problema è diventato evidente. In Italia, i dati dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) indicano un aumento del 27% nei procedimenti per pratiche commerciali scorrette tra il 2018 e il 2023. I settori più colpiti includono prodotti per il benessere, integratori, servizi educativi online e offerte finanziarie complesse. Questo incremento riflette non solo una maggiore attenzione delle autorità, ma anche una crescente pressione da parte dei consumatori per una maggiore correttezza e verificabilità delle affermazioni commerciali.

In parallelo a questo processo di disillusione, si sta consolidando un movimento opposto: un ritorno alla semplicità, all’autenticità, alla coerenza tra ciò che un’impresa promette e ciò che realmente offre. Non si tratta di una moda passeggera, bensì di una trasformazione strutturale nelle aspettative del mercato. Il concetto di “minimal marketing”, ovvero una comunicazione essenziale, diretta, rispettosa dell’intelligenza del cliente, sta guadagnando terreno proprio per la sua capacità di ristabilire un legame fiduciario.

I marchi che fondano la propria identità su valori concreti, verificabili, spesso non urlati ma incarnati coerentemente in ogni fase del processo produttivo e distributivo, stanno ottenendo risultati rilevanti in termini di fidelizzazione e reputazione. Un esempio paradigmatico è Patagonia, l’azienda fondata da Yvon Chouinard, che ha costruito la propria reputazione non attraverso promesse roboanti ma tramite scelte coerenti, anche controverse, come la decisione di destinare tutti i profitti futuri alla salvaguardia del pianeta. Non è un caso che i brand percepiti come autentici ottengano una fedeltà dei clienti tre volte superiore rispetto ai concorrenti focalizzati esclusivamente sulla seduzione di breve periodo.

A confermare questa tendenza è anche la ricerca Nielsen del 2023, secondo cui l’84% dei consumatori globali considera l’autenticità come fattore determinante nella decisione d’acquisto. Il 73% afferma di preferire brand che comunicano in modo trasparente, anche a scapito della spettacolarità o dell’estetica. Non si tratta di una rinuncia alla forma, ma di una ricerca di sostanza: il design non è più fine a sé stesso, ma deve riflettere l’identità vera dell’azienda, la sua etica operativa, la qualità effettiva del prodotto.

Un’altra dimensione del fenomeno è la crescita dei cosiddetti community brand, ossia imprese che si sviluppano non attorno a una campagna pubblicitaria ma alla costruzione di relazioni reali con il proprio pubblico. Si tratta spesso di microimprese artigiane, start-up etiche o aziende a impatto sociale, che mettono al centro la conversazione con il cliente, la co-creazione di valore e la trasparenza radicale. Il risultato è una crescita organica, meno spettacolare ma molto più resiliente.

Anche il mondo finanziario si sta adeguando a questa nuova sensibilità. I fondi d’investimento ESG (Environmental, Social, Governance) stanno premiando le aziende che non si limitano a dichiarare valori etici, ma li dimostrano con indicatori di impatto misurabili. Al contrario, le imprese che praticano forme di “greenwashing” o “purpose washing” vengono sempre più penalizzate. La coerenza non è più solo un imperativo morale, ma un criterio oggettivo di valutazione anche per gli investitori.

Nel mondo del design dei servizi e della customer experience, il paradigma dell’human-centered design si sta affermando come approccio prevalente. Si parte dai bisogni autentici del cliente, si progettano esperienze semplici, intuitive, coerenti, e si abbandonano progressivamente i fronzoli del marketing tradizionale. Il valore non è più nell’apparire, ma nell’essere: l’estetica è al servizio della funzione, e la narrazione viene costruita a posteriori, su fondamenta reali.

Un’ulteriore conferma arriva dall’analisi dei comportamenti delle nuove generazioni. Millennials e Gen Z, cresciuti nell’era della sovraesposizione pubblicitaria e della manipolazione algoritmica, mostrano una netta predilezione per i brand che mantengono una coerenza tra visione, comunicazione e azione. Sono molto meno disposti a tollerare messaggi ingannevoli o sovrastimolazioni emotive, e molto più propensi a supportare realtà che si mostrano vulnerabili, trasparenti, vere.

Il quadro che emerge è quello di una transizione culturale in atto. Dopo un’epoca dominata da tecniche persuasive sempre più sofisticate, l’attenzione collettiva si sta spostando verso modelli relazionali più semplici e autentici. Non si tratta di un ritorno al passato, ma di una nuova forma di maturità del mercato, dove la fiducia non è più acquisita attraverso la promessa, ma meritata attraverso la coerenza. L’impresa del futuro, piccola o grande che sia, non avrà bisogno di apparire migliore di ciò che è: basterà che sia ciò che dice di essere.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

10/06/2025

L’onestà come leva strategica e asset aziendale

In un contesto economico interconnesso, tracciabile e digitalizzato, l’onestà e la trasparenza non sono più soltanto valori etici, ma fattori strutturali e strategici per la sopravvivenza e la crescita di una piccola e media impresa. La trasparenza deve oggi permeare ogni aspetto della gestione aziendale, dal bilancio fiscale alla contabilità industriale, dal business plan alla struttura procedurale, fino alle certificazioni di qualità. L’epoca in cui alcune “zone d’ombra” potevano essere tollerate è finita. La convergenza tra normative sempre più stringenti, banche dati incrociate, intelligenza artificiale e strumenti di scoring avanzato sta ridisegnando i confini tra aziende “centrali” e “periferiche”, tra imprese partner e imprese escluse.

Per anni, molte PMI hanno gestito due contabilità sostanzialmente disallineate: una fiscale, costruita per ottimizzare il carico tributario; una industriale, interna, focalizzata sull’efficienza produttiva e sul controllo dei margini. Oggi questa biforcazione è divenuta un rischio. I dati aziendali vengono letti e interpretati non più solo dal commercialista o dall’imprenditore, ma anche da banche, fondi, agenzie di rating, partner internazionali e, sempre più, algoritmi. L’incoerenza tra margini dichiarati e strutture di costo reali è un campanello d’allarme per qualunque stakeholder sofisticato.

Una contabilità integrata, trasparente e coerente tra dimensione fiscale e industriale è invece un potente elemento di credibilità. È il linguaggio della verità che permette di negoziare da pari con il mondo finanziario, partecipare a bandi pubblici o entrare in supply chain globali.

Un business plan non è solo uno strumento previsionale: è un contratto implicito con il futuro. Quando è allineato con la contabilità, con i flussi operativi e con le politiche di qualità aziendale, trasmette solidità, visione e capacità di esecuzione. Quando invece è viziato da stime arbitrarie o da una rappresentazione incoerente rispetto allo stato di fatto, danneggia la reputazione e allontana investitori e partner.

Un piano credibile e coerente deve fondarsi su dati storici attendibili, su una contabilità ben strutturata, su indicatori KPI chiari e su una governance orientata al controllo di gestione. In questo senso, l’onestà diventa un’infrastruttura reputazionale prima ancora che un principio morale.

Le certificazioni (ISO, ambientali, ESG, ecc.) non sono bollini ornamentali, ma attestati di disciplina interna. Le procedure, se applicate e tracciate, sono garanzie di ripetibilità e controllo. In un mondo dove tutto è “auditabile”, dove ogni dichiarazione può essere verificata attraverso database pubblici e privati, l’integrità del sistema documentale e procedurale è essenziale.

Essere trasparenti significa, in pratica, dimostrare ogni affermazione. Una PMI che adotta procedure coerenti, che certifica i propri processi e li integra nei flussi contabili e industriali, trasmette solidità strutturale, riduce il rischio percepito e si posiziona come interlocutore affidabile nel medio-lungo periodo.

Oggi i principali stakeholder — banche, clienti corporate, pubblica amministrazione, piattaforme digitali — si affidano a sistemi di scoring automatizzati, analisi predittive e verifiche incrociate. Le PMI che presentano disallineamenti tra documenti ufficiali e pratiche reali, che operano ancora in ambiti informali o “non tracciati”, rischiano di essere escluse a priori. Non vengono scelte non perché colpevoli, ma perché opache. E l’opacità, nell’era della trasparenza algoritmica, è sinonimo di rischio non misurabile.

Questo processo di esclusione è silenzioso ma progressivo: peggioramento dei rating, aumento dei costi di credito, esclusione da bandi, perdita di clienti strutturati. La PMI non trasparente scivola verso una “periferia sistemica”, fatta di fornitori marginali, commesse irregolari, difficoltà di accesso a capitale e innovazione. Una periferia che è, giorno dopo giorno, più povera e più scomoda.

Essere onesti oggi non è solo un’opzione morale, ma un posizionamento strategico. È l’unico modo per integrarsi nei sistemi economici avanzati, attrarre stakeholder di qualità, accedere a risorse e sviluppare valore sostenibile. Non si tratta più di “fare bella figura”, ma di costruire una struttura aziendale solida, leggibile e verificabile in ogni sua parte.

In un ecosistema sempre più data-driven, la trasparenza è la nuova moneta di scambio. Chi non la possiede viene escluso. Chi la coltiva, la organizza e la certifica, può ambire a giocare al centro del sistema. Le PMI italiane, se vogliono restare protagoniste, devono abbracciare questa trasformazione non solo come adeguamento normativo, ma come leva per l’eccellenza. E l’eccellenza, oggi, è onesta: coerente e verificabile.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

03/06/2025