La deindustrializzazione: rischi, opportunità e strategie per le PMI
Negli ultimi vent’anni, l’Europa ha progressivamente assistito a un processo di deindustrializzazione che si è rivelato particolarmente accentuato in alcune aree, tra cui l’Italia. Questo fenomeno, spesso percepito solo come una perdita del settore manifatturiero, è in realtà una trasformazione strutturale profonda del tessuto economico. Se da un lato si riduce la produzione industriale in senso stretto, dall’altro emergono nuove configurazioni produttive, tecnologiche e organizzative. In questo scenario complesso, le piccole e medie imprese italiane si trovano di fronte a sfide significative ma anche a inedite opportunità di rilancio.
Secondo i dati di Eurostat, la quota dell’industria manifatturiera sul PIL dell’Unione Europea è scesa dal 19,2% nel 2000 al 14,9% nel 2023. L’Italia, una volta orgogliosamente parte del cosiddetto “cuore manifatturiero d’Europa”, ha visto una contrazione ancora più evidente: nello stesso periodo, il peso del manifatturiero sul PIL nazionale è passato dal 20,5% al 15,4%.
Ancora più eloquenti sono i dati sull’occupazione: in Italia, il numero di addetti nel settore industriale è sceso da circa 5,6 milioni nel 2000 a meno di 4,2 milioni nel 2023. Questo significa che oltre un milione di posti di lavoro nel settore sono andati persi, spesso non sostituiti da impieghi equivalenti in termini di competenze e redditività.
La deindustrializzazione non è tuttavia un destino ineluttabile, né un fenomeno univoco. Essa è il risultato di più dinamiche: delocalizzazione produttiva verso paesi a basso costo, automazione e digitalizzazione dei processi, crisi strutturali di alcuni comparti e, non da ultimo, l’assenza di una visione industriale comune in ambito europeo.
Per le PMI italiane, questo contesto implica rischi specifici e sistemici. Innanzitutto, la perdita di capacità produttiva comporta una minore possibilità di presidiare le filiere strategiche, con un effetto domino su competitività, innovazione e potere contrattuale. Le imprese rischiano di trasformarsi da produttori a semplici assemblatori o, peggio, distributori di tecnologie altrui.
In secondo luogo, l’erosione del know-how manifatturiero, specie nelle aree periferiche o non metropolitane, minaccia il patrimonio intangibile del made in Italy: la maestria artigianale, l’ingegneria diffusa, l’adattabilità produttiva. A ciò si aggiunge il rischio della desertificazione industriale in interi distretti un tempo vitali, con conseguente impatto sociale e demografico.
Infine, l’accesso al credito e agli investimenti in ricerca diventa più difficile in assenza di una prospettiva di crescita industriale, aggravando la fragilità finanziaria di molte PMI.
Ma accanto ai rischi, la deindustrializzazione può aprire spazi inattesi. La riconfigurazione dell’economia europea verso modelli più sostenibili e digitali offre una finestra di opportunità per quelle PMI che sapranno adattarsi.
L’industria 4.0, ad esempio, consente alle piccole imprese di diventare “micro-fabbriche intelligenti”, capaci di produrre su commessa, in tempi rapidi, e con elevata personalizzazione. Le tecnologie digitali – stampa 3D, IoT, cloud manufacturing – democratizzano l’accesso alla manifattura avanzata e consentono di partecipare a filiere globali anche con risorse limitate.
La transizione ecologica è un altro ambito promettente: l’UE investirà circa 1.000 miliardi di euro entro il 2030 nel Green Deal europeo. Le PMI che forniscono soluzioni per l’efficienza energetica, il riciclo, la mobilità sostenibile o i materiali innovativi avranno accesso a nuovi mercati e a incentivi consistenti.
Inoltre, la ristrutturazione delle catene di fornitura post-pandemia sta favorendo il fenomeno del “reshoring”: la rilocalizzazione di attività produttive in Europa. Questo processo apre spazi per la manifattura locale ad alto valore aggiunto e qualità certificata.
In questo scenario di cambiamento, non è più tempo per restare fermi ad attendere. Le piccole e medie imprese italiane, eredi di una tradizione imprenditoriale fondata sulla capacità di adattamento e sulla creatività produttiva, sono oggi chiamate a compiere scelte coraggiose, ma anche profondamente radicate nel proprio DNA.
Il primo passo è un cambio di sguardo: la digitalizzazione non deve più essere percepita come un ostacolo tecnico o come un territorio riservato alle grandi multinazionali. Al contrario, per molte PMI può rappresentare la chiave per recuperare competitività e agilità. In piccoli laboratori meccanici o nelle aziende artigiane del tessile, l’introduzione di sensori intelligenti, software gestionali evoluti, tecnologie cloud e strumenti di automazione può aprire la strada a processi produttivi snelli, efficienti e persino personalizzati su scala. È una rivoluzione silenziosa, fatta di piccoli passi ma di grande impatto, che permette alle imprese di continuare a lavorare “su misura”, come da tradizione, ma con gli strumenti della contemporaneità.
Contemporaneamente, sta nascendo una nuova consapevolezza: nessuna impresa è davvero sola. La riscoperta delle reti territoriali, delle filiere locali, delle collaborazioni tra aziende, enti di ricerca, istituti tecnici e professionisti è sempre più centrale. Laddove un tempo i distretti industriali si basavano sulla prossimità fisica e sulle relazioni di fiducia, oggi possono rinascere grazie a piattaforme digitali, consorzi, accordi di co-produzione e filiere trasversali che uniscono competenze complementari. Il valore non è più soltanto nella produzione in sé, ma nella capacità di costruire una rete che distribuisce conoscenza, flessibilità e resilienza.
Anche la finanza deve diventare un alleato e non più un fattore di incertezza. Non si tratta soltanto di cercare credito, ma di saperlo orientare verso progetti solidi, innovativi e sostenibili. I tempi stanno cambiando: oltre al tradizionale sistema bancario, si stanno affermando canali nuovi come i minibond, le piattaforme di crowdfunding, i fondi europei, le opportunità offerte dai piani di investimento in transizione digitale e green. Per accedervi, è essenziale che l’impresa sappia raccontarsi con un linguaggio nuovo, fatto di business plan credibili, visioni industriali coerenti, piani di impatto ambientale e sociale ben delineati. In questo campo, la differenza la fa la preparazione.
Ma ogni trasformazione esterna ha bisogno di una corrispondente trasformazione interna. È il momento per molti imprenditori di investire non solo in macchinari, ma nella crescita delle persone. La formazione delle maestranze, l’aggiornamento delle competenze, l’apertura a nuovi modelli organizzativi e manageriali possono fare la differenza. In un contesto sempre più interconnesso, è l’intelligenza collettiva – fatta di persone capaci, curiose e motivate – il vero asset competitivo di un’impresa.
Infine, un orizzonte che fino a pochi anni fa sembrava secondario, oggi si impone come una direttrice strategica: la sostenibilità. Le PMI che integrano nel loro modello di business criteri ambientali, sociali e di buona governance – i noti ESG – non solo contribuiscono a un futuro più equo e vivibile, ma si posizionano come partner credibili in filiere internazionali, come fornitori preferiti per grandi aziende, come destinatari di capitali sempre più attenti all’impatto. Anche la piccola azienda familiare, se capace di produrre con materiali riciclati, ridurre le emissioni, coinvolgere il territorio, può diventare una storia di successo a livello europeo.
Noi siamo pronti, Voi?
Articolo di Marco Simontacchi
28/05/2025