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Malo esse quam videri: il nuovo mantra del marketing

Negli ultimi anni si sta assistendo a un mutamento profondo nelle dinamiche tra imprese e consumatori, un cambiamento che non riguarda soltanto il modo in cui i prodotti vengono presentati, ma che tocca l’essenza stessa del rapporto fiduciario tra brand e pubblico. Per oltre un decennio, il mercato globale è stato dominato da un approccio fortemente incentrato sul marketing emozionale, dove la priorità era spesso catturare l’attenzione a ogni costo, anche a scapito della trasparenza. L’estetica, la narrazione, le strategie persuasive e la costruzione di identità di marca hanno assunto un ruolo centrale, al punto che la realtà del prodotto o servizio passava in secondo piano. L’obiettivo era sedurre, persuadere, convincere, spesso con una sofisticazione tale da rendere indistinguibili le promesse dalla realtà.

Tuttavia, proprio questa eccessiva esposizione a messaggi costruiti, talvolta artefatti o persino ingannevoli, ha progressivamente eroso la fiducia dei consumatori. I segnali in questo senso sono numerosi e convergenti. L’Edelman Trust Barometer 2024, un’analisi annuale che misura la fiducia nelle istituzioni, ha rivelato che solo il 42% dei consumatori globali si fida della pubblicità tradizionale o delle comunicazioni corporate. Ancora più significativo è il dato secondo cui il 60% degli intervistati ha dichiarato di aver perso fiducia in un marchio che in precedenza apprezzava, proprio a causa della discrepanza tra la narrazione proposta e l’effettiva esperienza d’uso.

Il fenomeno ha radici profonde, alimentate anche dall’evoluzione del marketing digitale. Le piattaforme social hanno offerto spazi illimitati per la diffusione di messaggi seducenti, ma spesso scollegati da qualunque verifica empirica. Tra il 2020 e il 2024, il costo per acquisizione (CPA) medio su piattaforme come Facebook e Instagram è aumentato di circa il 35%, mentre i tassi di conversione effettivi sono calati. Questo scollamento segnala chiaramente una crescente resistenza del pubblico: l’overload di messaggi pubblicitari genera saturazione cognitiva e, infine, disaffezione.

Anche sul piano regolamentare il problema è diventato evidente. In Italia, i dati dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) indicano un aumento del 27% nei procedimenti per pratiche commerciali scorrette tra il 2018 e il 2023. I settori più colpiti includono prodotti per il benessere, integratori, servizi educativi online e offerte finanziarie complesse. Questo incremento riflette non solo una maggiore attenzione delle autorità, ma anche una crescente pressione da parte dei consumatori per una maggiore correttezza e verificabilità delle affermazioni commerciali.

In parallelo a questo processo di disillusione, si sta consolidando un movimento opposto: un ritorno alla semplicità, all’autenticità, alla coerenza tra ciò che un’impresa promette e ciò che realmente offre. Non si tratta di una moda passeggera, bensì di una trasformazione strutturale nelle aspettative del mercato. Il concetto di “minimal marketing”, ovvero una comunicazione essenziale, diretta, rispettosa dell’intelligenza del cliente, sta guadagnando terreno proprio per la sua capacità di ristabilire un legame fiduciario.

I marchi che fondano la propria identità su valori concreti, verificabili, spesso non urlati ma incarnati coerentemente in ogni fase del processo produttivo e distributivo, stanno ottenendo risultati rilevanti in termini di fidelizzazione e reputazione. Un esempio paradigmatico è Patagonia, l’azienda fondata da Yvon Chouinard, che ha costruito la propria reputazione non attraverso promesse roboanti ma tramite scelte coerenti, anche controverse, come la decisione di destinare tutti i profitti futuri alla salvaguardia del pianeta. Non è un caso che i brand percepiti come autentici ottengano una fedeltà dei clienti tre volte superiore rispetto ai concorrenti focalizzati esclusivamente sulla seduzione di breve periodo.

A confermare questa tendenza è anche la ricerca Nielsen del 2023, secondo cui l’84% dei consumatori globali considera l’autenticità come fattore determinante nella decisione d’acquisto. Il 73% afferma di preferire brand che comunicano in modo trasparente, anche a scapito della spettacolarità o dell’estetica. Non si tratta di una rinuncia alla forma, ma di una ricerca di sostanza: il design non è più fine a sé stesso, ma deve riflettere l’identità vera dell’azienda, la sua etica operativa, la qualità effettiva del prodotto.

Un’altra dimensione del fenomeno è la crescita dei cosiddetti community brand, ossia imprese che si sviluppano non attorno a una campagna pubblicitaria ma alla costruzione di relazioni reali con il proprio pubblico. Si tratta spesso di microimprese artigiane, start-up etiche o aziende a impatto sociale, che mettono al centro la conversazione con il cliente, la co-creazione di valore e la trasparenza radicale. Il risultato è una crescita organica, meno spettacolare ma molto più resiliente.

Anche il mondo finanziario si sta adeguando a questa nuova sensibilità. I fondi d’investimento ESG (Environmental, Social, Governance) stanno premiando le aziende che non si limitano a dichiarare valori etici, ma li dimostrano con indicatori di impatto misurabili. Al contrario, le imprese che praticano forme di “greenwashing” o “purpose washing” vengono sempre più penalizzate. La coerenza non è più solo un imperativo morale, ma un criterio oggettivo di valutazione anche per gli investitori.

Nel mondo del design dei servizi e della customer experience, il paradigma dell’human-centered design si sta affermando come approccio prevalente. Si parte dai bisogni autentici del cliente, si progettano esperienze semplici, intuitive, coerenti, e si abbandonano progressivamente i fronzoli del marketing tradizionale. Il valore non è più nell’apparire, ma nell’essere: l’estetica è al servizio della funzione, e la narrazione viene costruita a posteriori, su fondamenta reali.

Un’ulteriore conferma arriva dall’analisi dei comportamenti delle nuove generazioni. Millennials e Gen Z, cresciuti nell’era della sovraesposizione pubblicitaria e della manipolazione algoritmica, mostrano una netta predilezione per i brand che mantengono una coerenza tra visione, comunicazione e azione. Sono molto meno disposti a tollerare messaggi ingannevoli o sovrastimolazioni emotive, e molto più propensi a supportare realtà che si mostrano vulnerabili, trasparenti, vere.

Il quadro che emerge è quello di una transizione culturale in atto. Dopo un’epoca dominata da tecniche persuasive sempre più sofisticate, l’attenzione collettiva si sta spostando verso modelli relazionali più semplici e autentici. Non si tratta di un ritorno al passato, ma di una nuova forma di maturità del mercato, dove la fiducia non è più acquisita attraverso la promessa, ma meritata attraverso la coerenza. L’impresa del futuro, piccola o grande che sia, non avrà bisogno di apparire migliore di ciò che è: basterà che sia ciò che dice di essere.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

10/06/2025

L’onestà come leva strategica e asset aziendale

In un contesto economico interconnesso, tracciabile e digitalizzato, l’onestà e la trasparenza non sono più soltanto valori etici, ma fattori strutturali e strategici per la sopravvivenza e la crescita di una piccola e media impresa. La trasparenza deve oggi permeare ogni aspetto della gestione aziendale, dal bilancio fiscale alla contabilità industriale, dal business plan alla struttura procedurale, fino alle certificazioni di qualità. L’epoca in cui alcune “zone d’ombra” potevano essere tollerate è finita. La convergenza tra normative sempre più stringenti, banche dati incrociate, intelligenza artificiale e strumenti di scoring avanzato sta ridisegnando i confini tra aziende “centrali” e “periferiche”, tra imprese partner e imprese escluse.

Per anni, molte PMI hanno gestito due contabilità sostanzialmente disallineate: una fiscale, costruita per ottimizzare il carico tributario; una industriale, interna, focalizzata sull’efficienza produttiva e sul controllo dei margini. Oggi questa biforcazione è divenuta un rischio. I dati aziendali vengono letti e interpretati non più solo dal commercialista o dall’imprenditore, ma anche da banche, fondi, agenzie di rating, partner internazionali e, sempre più, algoritmi. L’incoerenza tra margini dichiarati e strutture di costo reali è un campanello d’allarme per qualunque stakeholder sofisticato.

Una contabilità integrata, trasparente e coerente tra dimensione fiscale e industriale è invece un potente elemento di credibilità. È il linguaggio della verità che permette di negoziare da pari con il mondo finanziario, partecipare a bandi pubblici o entrare in supply chain globali.

Un business plan non è solo uno strumento previsionale: è un contratto implicito con il futuro. Quando è allineato con la contabilità, con i flussi operativi e con le politiche di qualità aziendale, trasmette solidità, visione e capacità di esecuzione. Quando invece è viziato da stime arbitrarie o da una rappresentazione incoerente rispetto allo stato di fatto, danneggia la reputazione e allontana investitori e partner.

Un piano credibile e coerente deve fondarsi su dati storici attendibili, su una contabilità ben strutturata, su indicatori KPI chiari e su una governance orientata al controllo di gestione. In questo senso, l’onestà diventa un’infrastruttura reputazionale prima ancora che un principio morale.

Le certificazioni (ISO, ambientali, ESG, ecc.) non sono bollini ornamentali, ma attestati di disciplina interna. Le procedure, se applicate e tracciate, sono garanzie di ripetibilità e controllo. In un mondo dove tutto è “auditabile”, dove ogni dichiarazione può essere verificata attraverso database pubblici e privati, l’integrità del sistema documentale e procedurale è essenziale.

Essere trasparenti significa, in pratica, dimostrare ogni affermazione. Una PMI che adotta procedure coerenti, che certifica i propri processi e li integra nei flussi contabili e industriali, trasmette solidità strutturale, riduce il rischio percepito e si posiziona come interlocutore affidabile nel medio-lungo periodo.

Oggi i principali stakeholder — banche, clienti corporate, pubblica amministrazione, piattaforme digitali — si affidano a sistemi di scoring automatizzati, analisi predittive e verifiche incrociate. Le PMI che presentano disallineamenti tra documenti ufficiali e pratiche reali, che operano ancora in ambiti informali o “non tracciati”, rischiano di essere escluse a priori. Non vengono scelte non perché colpevoli, ma perché opache. E l’opacità, nell’era della trasparenza algoritmica, è sinonimo di rischio non misurabile.

Questo processo di esclusione è silenzioso ma progressivo: peggioramento dei rating, aumento dei costi di credito, esclusione da bandi, perdita di clienti strutturati. La PMI non trasparente scivola verso una “periferia sistemica”, fatta di fornitori marginali, commesse irregolari, difficoltà di accesso a capitale e innovazione. Una periferia che è, giorno dopo giorno, più povera e più scomoda.

Essere onesti oggi non è solo un’opzione morale, ma un posizionamento strategico. È l’unico modo per integrarsi nei sistemi economici avanzati, attrarre stakeholder di qualità, accedere a risorse e sviluppare valore sostenibile. Non si tratta più di “fare bella figura”, ma di costruire una struttura aziendale solida, leggibile e verificabile in ogni sua parte.

In un ecosistema sempre più data-driven, la trasparenza è la nuova moneta di scambio. Chi non la possiede viene escluso. Chi la coltiva, la organizza e la certifica, può ambire a giocare al centro del sistema. Le PMI italiane, se vogliono restare protagoniste, devono abbracciare questa trasformazione non solo come adeguamento normativo, ma come leva per l’eccellenza. E l’eccellenza, oggi, è onesta: coerente e verificabile.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

03/06/2025

La deindustrializzazione: rischi, opportunità e strategie per le PMI

Negli ultimi vent’anni, l’Europa ha progressivamente assistito a un processo di deindustrializzazione che si è rivelato particolarmente accentuato in alcune aree, tra cui l’Italia. Questo fenomeno, spesso percepito solo come una perdita del settore manifatturiero, è in realtà una trasformazione strutturale profonda del tessuto economico. Se da un lato si riduce la produzione industriale in senso stretto, dall’altro emergono nuove configurazioni produttive, tecnologiche e organizzative. In questo scenario complesso, le piccole e medie imprese italiane si trovano di fronte a sfide significative ma anche a inedite opportunità di rilancio.

Secondo i dati di Eurostat, la quota dell’industria manifatturiera sul PIL dell’Unione Europea è scesa dal 19,2% nel 2000 al 14,9% nel 2023. L’Italia, una volta orgogliosamente parte del cosiddetto “cuore manifatturiero d’Europa”, ha visto una contrazione ancora più evidente: nello stesso periodo, il peso del manifatturiero sul PIL nazionale è passato dal 20,5% al 15,4%.

Ancora più eloquenti sono i dati sull’occupazione: in Italia, il numero di addetti nel settore industriale è sceso da circa 5,6 milioni nel 2000 a meno di 4,2 milioni nel 2023. Questo significa che oltre un milione di posti di lavoro nel settore sono andati persi, spesso non sostituiti da impieghi equivalenti in termini di competenze e redditività.

La deindustrializzazione non è tuttavia un destino ineluttabile, né un fenomeno univoco. Essa è il risultato di più dinamiche: delocalizzazione produttiva verso paesi a basso costo, automazione e digitalizzazione dei processi, crisi strutturali di alcuni comparti e, non da ultimo, l’assenza di una visione industriale comune in ambito europeo.

Per le PMI italiane, questo contesto implica rischi specifici e sistemici. Innanzitutto, la perdita di capacità produttiva comporta una minore possibilità di presidiare le filiere strategiche, con un effetto domino su competitività, innovazione e potere contrattuale. Le imprese rischiano di trasformarsi da produttori a semplici assemblatori o, peggio, distributori di tecnologie altrui.

In secondo luogo, l’erosione del know-how manifatturiero, specie nelle aree periferiche o non metropolitane, minaccia il patrimonio intangibile del made in Italy: la maestria artigianale, l’ingegneria diffusa, l’adattabilità produttiva. A ciò si aggiunge il rischio della desertificazione industriale in interi distretti un tempo vitali, con conseguente impatto sociale e demografico.

Infine, l’accesso al credito e agli investimenti in ricerca diventa più difficile in assenza di una prospettiva di crescita industriale, aggravando la fragilità finanziaria di molte PMI.

Ma accanto ai rischi, la deindustrializzazione può aprire spazi inattesi. La riconfigurazione dell’economia europea verso modelli più sostenibili e digitali offre una finestra di opportunità per quelle PMI che sapranno adattarsi.

L’industria 4.0, ad esempio, consente alle piccole imprese di diventare “micro-fabbriche intelligenti”, capaci di produrre su commessa, in tempi rapidi, e con elevata personalizzazione. Le tecnologie digitali – stampa 3D, IoT, cloud manufacturing – democratizzano l’accesso alla manifattura avanzata e consentono di partecipare a filiere globali anche con risorse limitate.

La transizione ecologica è un altro ambito promettente: l’UE investirà circa 1.000 miliardi di euro entro il 2030 nel Green Deal europeo. Le PMI che forniscono soluzioni per l’efficienza energetica, il riciclo, la mobilità sostenibile o i materiali innovativi avranno accesso a nuovi mercati e a incentivi consistenti.

Inoltre, la ristrutturazione delle catene di fornitura post-pandemia sta favorendo il fenomeno del “reshoring”: la rilocalizzazione di attività produttive in Europa. Questo processo apre spazi per la manifattura locale ad alto valore aggiunto e qualità certificata.

In questo scenario di cambiamento, non è più tempo per restare fermi ad attendere. Le piccole e medie imprese italiane, eredi di una tradizione imprenditoriale fondata sulla capacità di adattamento e sulla creatività produttiva, sono oggi chiamate a compiere scelte coraggiose, ma anche profondamente radicate nel proprio DNA.

Il primo passo è un cambio di sguardo: la digitalizzazione non deve più essere percepita come un ostacolo tecnico o come un territorio riservato alle grandi multinazionali. Al contrario, per molte PMI può rappresentare la chiave per recuperare competitività e agilità. In piccoli laboratori meccanici o nelle aziende artigiane del tessile, l’introduzione di sensori intelligenti, software gestionali evoluti, tecnologie cloud e strumenti di automazione può aprire la strada a processi produttivi snelli, efficienti e persino personalizzati su scala. È una rivoluzione silenziosa, fatta di piccoli passi ma di grande impatto, che permette alle imprese di continuare a lavorare “su misura”, come da tradizione, ma con gli strumenti della contemporaneità.

Contemporaneamente, sta nascendo una nuova consapevolezza: nessuna impresa è davvero sola. La riscoperta delle reti territoriali, delle filiere locali, delle collaborazioni tra aziende, enti di ricerca, istituti tecnici e professionisti è sempre più centrale. Laddove un tempo i distretti industriali si basavano sulla prossimità fisica e sulle relazioni di fiducia, oggi possono rinascere grazie a piattaforme digitali, consorzi, accordi di co-produzione e filiere trasversali che uniscono competenze complementari. Il valore non è più soltanto nella produzione in sé, ma nella capacità di costruire una rete che distribuisce conoscenza, flessibilità e resilienza.

Anche la finanza deve diventare un alleato e non più un fattore di incertezza. Non si tratta soltanto di cercare credito, ma di saperlo orientare verso progetti solidi, innovativi e sostenibili. I tempi stanno cambiando: oltre al tradizionale sistema bancario, si stanno affermando canali nuovi come i minibond, le piattaforme di crowdfunding, i fondi europei, le opportunità offerte dai piani di investimento in transizione digitale e green. Per accedervi, è essenziale che l’impresa sappia raccontarsi con un linguaggio nuovo, fatto di business plan credibili, visioni industriali coerenti, piani di impatto ambientale e sociale ben delineati. In questo campo, la differenza la fa la preparazione.

Ma ogni trasformazione esterna ha bisogno di una corrispondente trasformazione interna. È il momento per molti imprenditori di investire non solo in macchinari, ma nella crescita delle persone. La formazione delle maestranze, l’aggiornamento delle competenze, l’apertura a nuovi modelli organizzativi e manageriali possono fare la differenza. In un contesto sempre più interconnesso, è l’intelligenza collettiva – fatta di persone capaci, curiose e motivate – il vero asset competitivo di un’impresa.

Infine, un orizzonte che fino a pochi anni fa sembrava secondario, oggi si impone come una direttrice strategica: la sostenibilità. Le PMI che integrano nel loro modello di business criteri ambientali, sociali e di buona governance – i noti ESG – non solo contribuiscono a un futuro più equo e vivibile, ma si posizionano come partner credibili in filiere internazionali, come fornitori preferiti per grandi aziende, come destinatari di capitali sempre più attenti all’impatto. Anche la piccola azienda familiare, se capace di produrre con materiali riciclati, ridurre le emissioni, coinvolgere il territorio, può diventare una storia di successo a livello europeo.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

28/05/2025

Sicurezza, parità, vantaggi fiscali: il futuro competitivo delle imprese è certificato

In un contesto economico sempre più interconnesso, attento alla sostenibilità e alla responsabilità sociale d’impresa, le certificazioni ISO 45001 e UNI/PdR 125 stanno progressivamente assumendo un ruolo strategico per le PMI italiane. Non si tratta più soltanto di adempimenti o strumenti formali: rappresentano vere e proprie leve competitive in grado di incidere sulla reputazione, sull’accesso al credito e sulle opportunità di sviluppo.

La certificazione ISO 45001, focalizzata sulla gestione della salute e sicurezza sul lavoro, è la prima norma ISO a definire un quadro organico per la protezione dei lavoratori. A differenza delle normative di base, che impongono requisiti minimi, questa certificazione introduce un modello proattivo e sistemico che porta l’azienda a identificare e gestire i rischi in modo strutturale, anziché reagire a posteriori agli incidenti. L’adozione della ISO 45001 implica una visione moderna della prevenzione: promuove la cultura della sicurezza, la responsabilizzazione diffusa, il coinvolgimento attivo dei dipendenti e la tracciabilità dei processi. Ne deriva una riduzione degli infortuni, una maggiore efficienza operativa e, nel medio periodo, un abbattimento dei costi assicurativi e di assenteismo, con benefici tangibili sulla produttività.

Ma oltre alla dimensione interna, la certificazione ISO 45001 agisce come potente segnale esterno. Fornitori, clienti e stakeholder riconoscono nel datore di lavoro certificato un partner affidabile, capace di garantire ambienti sicuri e sostenibili. Questo si traduce in un vantaggio reputazionale concreto, soprattutto in filiere dove la sicurezza è parte dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance). E il mondo finanziario – che ormai valuta le aziende non solo per i bilanci ma anche per l’impatto sociale – non resterà a lungo indifferente. Già si osserva una crescente attenzione da parte di fondi di investimento, banche e assicurazioni che, nella gestione dei rischi, privilegiano chi dimostra coerenza con i principi ESG. In breve tempo, il rating ambientale e sociale delle imprese sarà uno dei parametri per l’accesso al credito agevolato, a premi assicurativi ridotti e a fondi pubblici o europei selettivi.

La UNI/PdR 125:2022, d’altra parte, rappresenta un cambio di paradigma ancora più incisivo. Parlare di parità di genere non significa più limitarsi al rispetto delle leggi antidiscriminatorie: significa mettere a sistema politiche di equità, monitorare gli avanzamenti, misurare gli scostamenti tra uomo e donna in termini di carriera, retribuzioni, accesso alle posizioni apicali e conciliazione vita-lavoro. La certificazione, introdotta nel solco del PNRR e delle direttive europee, è diventata uno dei pochi strumenti normati per attestare l’effettivo impegno delle aziende nel campo dell’inclusione e della valorizzazione della diversità. Ed è qui che si gioca una partita decisiva.

In un’epoca in cui l’identità aziendale è un asset competitivo, la capacità di attrarre e trattenere talenti non dipende più soltanto dal salario ma dai valori incarnati dall’organizzazione. Le nuove generazioni – e non solo – orientano sempre più le loro scelte professionali verso realtà inclusive, eque, attente all’equilibrio umano oltre che economico. La UNI/PdR 125, in questo senso, è un sigillo distintivo, che comunica trasparenza e responsabilità. Ma c’è di più: le aziende certificate possono beneficiare di esoneri contributivi, premialità nei bandi pubblici, punteggi superiori nelle gare e, ancora una volta, migliori condizioni nel dialogo con il sistema finanziario.

Banca d’Italia, Consob, EBA e altri organismi di vigilanza europei stanno progressivamente integrando indicatori sociali e ambientali nei propri framework di valutazione del rischio. È solo questione di tempo prima che la compliance a standard volontari diventi prerequisito per accedere a linee di credito dedicate, strumenti di finanza agevolata o rating preferenziali. Le PMI che si dotano oggi di un sistema di gestione conforme alle norme ISO 45001 e UNI/PdR 125 non solo anticipano i futuri obblighi, ma costruiscono un’identità organizzativa più solida, resiliente e desiderabile agli occhi del mercato e della comunità finanziaria.

Aderire a queste certificazioni significa abbracciare una visione d’impresa evoluta, in cui il profitto non è disgiunto dal benessere delle persone e dall’equilibrio sociale. Significa investire oggi per creare valore domani, per sé e per il proprio ecosistema. E quando l’impresa si fa interprete di valori autentici, la differenza tra chi cresce e chi si limita a sopravvivere diventa evidente.

Ma il vantaggio non è solo strategico o reputazionale: è anche economico. Se ricorrono determinati parametri, infatti, i costi di certificazione possono essere compensati – se non addirittura superati – da esoneri contributivi e agevolazioni fiscali che rendono l’investimento non solo sostenibile, ma vantaggioso. In alcuni casi, si genera un risparmio netto sulle retribuzioni lorde grazie alla riduzione degli oneri a carico dell’azienda. Così, ciò che nasce come scelta valoriale e visione prospettica si trasforma in un concreto ritorno economico, che premia le imprese più attente, responsabili e lungimiranti.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

13/05/2025

La Rivincita delle PMI: come il Crowdfunding sta riscrivendo le regole della Finanza

Negli ultimi anni, il sistema di finanziamento delle imprese ha subito una trasformazione silenziosa ma radicale, spinta da una combinazione di evoluzioni tecnologiche, nuovi bisogni imprenditoriali e cambiamenti nei comportamenti degli investitori. In questo panorama in mutamento, la quotazione in Borsa, un tempo vetta ambita e traguardo simbolico dell’impresa affermata, appare oggi sempre più come un retaggio del passato, affaticata da costi proibitivi e da una macchina burocratica pesante e dispersiva. In parallelo, si assiste a una progressiva ascesa dell’equity crowdfunding, divenuto strumento privilegiato per una fascia crescente di piccole e medie imprese italiane desiderose di crescere senza perdere controllo e visione.

Nel 2023 si sono registrate 36 nuove quotazioni in Italia, di cui 4 su Euronext Milan, il segmento principale, e 32 su Euronext Growth Milan, la piattaforma dedicata alle PMI. La raccolta complessiva ammontava a circa 1,56 miliardi di euro. Tuttavia, nel 2024, il numero di IPO è sceso drasticamente a 19, segnalando un calo sostanziale, sia in termini numerici che di appetito verso questa modalità di accesso al capitale. Una contrazione che non sembra dovuta soltanto alla congiuntura macroeconomica, ma a un fenomeno più strutturale e profondo.

Contemporaneamente, l’equity crowdfunding ha registrato segnali di dinamismo significativi. Tra luglio 2023 e luglio 2024, in Italia, le campagne di raccolta hanno totalizzato oltre 106 milioni di euro, con una raccolta media per singola iniziativa salita a 593.000 euro, in netto aumento rispetto ai 444.000 euro del 2023. Numeri che testimoniano come sempre più imprenditori stiano optando per soluzioni agili, accessibili e maggiormente compatibili con la natura stessa delle PMI italiane: snelle, innovative, radicate nel territorio ma ambiziose sul fronte della crescita.

La divergenza tra questi due mondi è resa ancora più marcata se si guarda al confronto sui costi. Avviare una quotazione in Borsa implica sostenere spese molto elevate: dai consulenti legali agli studi notarili, dai revisori indipendenti agli advisor finanziari, senza dimenticare la redazione del prospetto informativo e le spese di marketing e comunicazione, il conto finale può facilmente raggiungere il 10-12% del capitale raccolto. Un onere che grava interamente sulla società emittente e che, spesso, deve essere sostenuto in larga parte prima ancora del successo dell’operazione. Al contrario, nel crowdfunding, i costi sono contenuti e direttamente proporzionali alla raccolta: le principali piattaforme italiane applicano commissioni tra il 5% e l’8%, talvolta comprensive anche dei servizi di consulenza e supporto.

Ma la questione economica è solo una parte del problema. La struttura stessa delle società quotate impone un regime di trasparenza e controllo che, per molte PMI, si trasforma in un fardello quotidiano. Obblighi di pubblicazione delle semestrali, aggiornamenti continui al mercato, compliance ai codici di corporate governance e adempimenti ESG diventano attività centrali per l’amministrazione e la direzione finanziaria. Un impegno che toglie tempo, risorse e concentrazione dalla pianificazione strategica, inducendo spesso le imprese a ragionare in ottica trimestrale piuttosto che a medio-lungo termine. La Borsa, più che un volano per lo sviluppo, si trasforma così in una gabbia dorata, nella quale la gestione risponde più alle esigenze burocratiche e agli equilibri politici degli investitori istituzionali che alla visione autentica dell’imprenditore.

In netta controtendenza, il crowdfunding offre una via alternativa che coniuga accesso ai capitali con libertà gestionale. I capitali raccolti arrivano da una platea di investitori diffusi, organizzati spesso attraverso veicoli fiduciari che non interferiscono nella governance dell’impresa. Ciò permette agli imprenditori di conservare intatta la propria autonomia decisionale, senza dover negoziare ogni mossa con fondi di investimento o rappresentanti in consiglio d’amministrazione. La relazione che si crea tra impresa e investitore è più simile a un patto fiduciario che a un contratto vincolante: si fonda sulla fiducia, sulla visione condivisa e sul senso di partecipazione al successo di un progetto comune.

Questa transizione non è solo tecnica o finanziaria, ma anche culturale. La finanza tradizionale, centralizzata, opaca e strutturalmente orientata ai grandi numeri, mostra oggi tutti i suoi limiti nel confrontarsi con un’economia che si muove su altri piani: più rapidi, più digitali, più inclusivi. Il crowdfunding, e più in generale l’ecosistema fintech, restituisce al risparmio privato il suo ruolo attivo, disintermediando le strutture bancarie e offrendo strumenti di investimento accessibili, trasparenti e coerenti con le logiche della nuova imprenditorialità. È un cambiamento di paradigma, che ridefinisce il concetto stesso di finanza: da strumento speculativo a leva di sviluppo partecipato.

Se non vi sarà una riforma profonda, non solo normativa ma anche culturale, il rischio è che le Borse, e con esse l’intero impianto della finanza istituzionale, continuino a scivolare in una decadenza silenziosa ma inesorabile. Le PMI, che costituiscono la spina dorsale del sistema economico italiano, non possono permettersi di essere frenate da apparati pesanti e obsoleti. Chiedono soluzioni agili, trasparenti, efficienti. E il mercato, quando non trova risposte nei canali ufficiali, se le costruisce da sé.

Noi siamo pronti e operativi, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

06/05/2025

Il rischio consapevole: tra impresa, investimento e visione

Nel mondo degli affari, così come in quello degli investimenti, il concetto di rischio è spesso frainteso o semplificato. Si tende comunemente ad associare il rischio alla sola possibilità di perdita, alla minaccia che qualcosa possa andare storto rispetto ai piani previsti. Tuttavia, una visione più articolata e realistica riconosce che il rischio rappresenta innanzitutto una dimensione di aleatorietà, una zona grigia dove coesistono potenziale perdita e possibile guadagno. Senza rischio, infatti, non esisterebbe nemmeno la possibilità di ottenere rendimenti significativi: è proprio la variabilità, l’imprevedibilità degli esiti, a creare lo spazio per opportunità fuori dall’ordinario.

Questa osservazione è particolarmente evidente quando si esamina la dinamica del profitto in un mercato concorrenziale. In condizioni di concorrenza perfetta, con informazioni simmetriche e accesso uguale alle risorse, i margini tendono a comprimersi. I profitti si appiattiscono, e i ritorni diventano prevedibili quanto modesti. Il rischio, dunque, diventa la risorsa scarsa, ciò che può ancora generare vantaggio competitivo. È per questo che molti imprenditori, in modo istintivo o consapevole, cercano contesti in cui l’incertezza non è ancora stata domata — settori nuovi, mercati emergenti, tecnologie non ancora mature.

Anche nei casi di monopolio, che potrebbero apparire come esenti da rischi, la situazione è solo apparentemente stabile. Un monopolio garantisce profitti elevati finché dura, ma porta con sé un rischio implicito e sistemico: quello di una perdita di competitività nel momento in cui il mercato si apre alla concorrenza o si evolve. Il monopolista, abituato a dominare senza dover migliorare, potrebbe non reggere il confronto con nuovi entranti più agili, più innovativi, più affamati. In questo senso, il vero rischio del monopolio è la perdita dell’adattabilità.

In un celebre aforisma, si definisce l’imprenditore come “colui che si tuffa da un dirupo e costruisce un aeroplano durante la caduta”. L’immagine è potente e volutamente estrema, ma coglie una verità essenziale: fare impresa significa spesso agire prima di avere tutte le risposte, scommettere sulle proprie capacità di adattamento, su un intuito visionario che precede l’analisi completa. Ma attenzione: questa non è un’apologia dell’improvvisazione. È piuttosto la descrizione di una dinamica dove il calcolo razionale coesiste con il coraggio dell’azione.

Per affrontare il rischio in modo proficuo, occorre ciò che potremmo definire una “spregiudicata ragionevolezza”. Spregiudicata, nel senso di non irrigidita da regole formali o timori paralizzanti; ragionevole, nel senso di profondamente consapevole delle implicazioni delle proprie scelte. In altre parole, non si tratta di essere temerari, ma nemmeno di attendere che tutte le condizioni siano perfette. Il rischio va riconosciuto, misurato, e abbracciato, non evitato a ogni costo.

È qui che si può richiamare una metafora classica: la differenza tra Icaro e Pitagora. Il primo vola troppo vicino al sole, inebriato da un’ambizione senza misura, e finisce per bruciarsi le ali. Il secondo osserva, calcola, conosce le leggi dell’armonia, e forse proprio per questo riesce a volare più a lungo, più lontano. Il rischio non è il nemico: l’ignoranza del rischio lo è. Le due ali che permettono di volare senza precipitare sono la consapevolezza e il controllo — senza di esse, il salto nel vuoto resta solo una caduta.

L’arte di fare impresa o investimenti non sta nell’eliminare il rischio, bensì nel governarlo. Serve intuizione, certo, ma anche metodo. Serve visione, ma anche verifica costante. Chi sa danzare sull’orlo del precipizio, senza farsi risucchiare, può davvero costruire qualcosa che vola. Non si tratta di sfidare il destino, ma di saperci dialogare. È questa la vera alchimia dell’imprenditorialità: un equilibrio dinamico tra ardimento e riflessione.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

30/04/2025

PMI e Finanza Straordinaria

Negli ultimi anni, il concetto di finanza straordinaria ha assunto una centralità sempre più marcata nelle strategie di sviluppo delle PMI. Di fronte a un credito bancario tradizionale sempre più selettivo e oneroso, molte imprese hanno cominciato a esplorare soluzioni alternative per sostenere la crescita, migliorare la liquidità o ristrutturare il proprio debito. Gli strumenti a disposizione sono molteplici, ciascuno con caratteristiche proprie, vantaggi e limiti che vanno compresi a fondo per poterne fare un uso realmente efficace.

Il crowdfunding, in particolare, si è affermato come uno degli strumenti più accessibili, diffondendosi sia nella sua forma equity sia in quella lending. Nel primo caso, attraverso piattaforme online, le imprese aprono il proprio capitale sociale a una moltitudine di investitori, raccogliendo risorse fresche senza generare nuovo debito. Questo permette di rafforzare la struttura patrimoniale e migliorare l’immagine creditizia, ma richiede la disponibilità ad accettare una certa diluizione della proprietà aziendale, con tutti i riflessi anche in termini di governance e comunicazione verso nuovi soci. Nel caso del lending crowdfunding, invece, l’impresa ottiene finanziamenti sotto forma di prestito da parte di una pluralità di investitori, mantenendo intatto il controllo societario ma assumendosi l’onere della restituzione del capitale con gli interessi pattuiti. Il vantaggio principale risiede nella rapidità dell’operazione e nella possibilità di costruire un piano di rimborso più flessibile rispetto a quello bancario, anche se i tassi di interesse possono risultare più elevati, soprattutto in funzione del rischio percepito dagli investitori.

Accanto al crowdfunding, si è sviluppato il mercato della cessione dei crediti commerciali attraverso piattaforme digitali di invoice trading. Questo strumento consente alle imprese di cedere singole fatture a investitori o operatori specializzati, ottenendo immediatamente liquidità senza dover attendere i tempi di pagamento concordati con i clienti. La grande forza di questa soluzione è la possibilità di intervenire in modo selettivo su specifici crediti, senza dover vincolare l’intero portafoglio. Tuttavia, la valutazione del credito ceduto e il profilo di rischio del cliente possono influenzare significativamente il prezzo di cessione, con una riduzione del valore nominale della fattura che, in alcune situazioni, può risultare non trascurabile.

Il reverse factoring rappresenta un’altra modalità evoluta di gestione del capitale circolante. A differenza del factoring tradizionale, è il cliente finale – generalmente di grandi dimensioni – a coinvolgere un operatore finanziario per anticipare i pagamenti ai suoi fornitori. Per le PMI fornitrici si tratta di un’opportunità importante: si ottiene liquidità immediata, si riducono i tempi di incasso e si migliora la posizione finanziaria, spesso a condizioni più favorevoli rispetto al credito bancario. Il rovescio della medaglia è che il reverse factoring è strettamente legato alla solidità e alla volontà del cliente capofiliera; se quest’ultimo dovesse modificare strategia o ridimensionare il programma, il fornitore potrebbe ritrovarsi improvvisamente senza accesso a questa forma di liquidità.

Tra gli strumenti più strutturati e sofisticati si collocano infine i minibond. Attraverso l’emissione di questi titoli di debito, le PMI possono raccogliere fondi presso investitori istituzionali per finanziare progetti di crescita, investimenti strategici o operazioni straordinarie. I minibond offrono il vantaggio di ottenere importi significativi su orizzonti temporali medio-lunghi, spesso con modalità di rimborso flessibili. Al contempo, richiedono una struttura aziendale adeguata a sostenere il peso di un’operazione finanziaria complessa: piani industriali solidi, bilanci certificati, sistemi di controllo interno robusti e una capacità dimostrata di generare cassa sufficiente per onorare il servizio del debito. Il costo di emissione e gestione non è trascurabile e l’accesso a questi strumenti è di fatto riservato alle imprese che presentano un profilo economico-finanziario sufficientemente sano e trasparente.

Nonostante la varietà di soluzioni disponibili, nessuno di questi strumenti può essere considerato la “formula magica” per tutte le imprese. Ogni opzione richiede una valutazione attenta e personalizzata in base alle caratteristiche specifiche dell’azienda, ai suoi obiettivi di crescita, alla struttura patrimoniale e alla capacità di sostenere l’impegno finanziario nel tempo. L’errore più grave sarebbe quello di scegliere uno strumento di finanza straordinaria esclusivamente sulla base della rapidità di accesso o della moda del momento, senza una vera analisi strategica delle implicazioni operative, finanziarie e patrimoniali.

In un mercato in rapida evoluzione e sempre più competitivo, le imprese che sapranno approcciare questi strumenti con metodo, competenza e visione potranno trasformare la finanza straordinaria da semplice necessità contingente a leva di crescita strutturale. Una finanza non più subita, ma governata con intelligenza e consapevolezza, capace di diventare un alleato prezioso nella costruzione di un futuro solido e sostenibile.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

23/04/2025

Abbraccia il vento del cambiamento

Nel cuore delle serre protette, le piante si innalzano rapide verso la luce, incoraggiate da un ambiente costante, privo di scosse, dove il sole filtra in modo calibrato e l’umidità è sempre sotto controllo. I loro fusti si slanciano con eleganza, sottili, spesso flessuosi. Ma basta un evento imprevisto, una corrente d’aria, uno squilibrio nel terreno, un cambiamento improvviso di temperatura, perché quei rami, cresciuti senza resistenza, inizino a piegarsi, spezzarsi, cedere sotto un peso minimo. È allora che emerge la differenza tra crescita e solidità.

All’esterno, nel mondo esposto, gli alberi modellano il proprio carattere nel confronto costante con il vento. Le raffiche li fanno ondeggiare, li scuotono, talvolta li feriscono. Ma quell’agitazione non è mai vana. I tessuti si ispessiscono, le fibre si rafforzano, le radici affondano più a fondo. La pianta non diventa semplicemente più alta, diventa stabile. Non solo vive: sopravvive.

In tempi di mercati incerti, l’economia non è diversa. Le piccole e medie imprese che da tempo attraversano condizioni avverse, mutamenti normativi, variazioni improvvise nella domanda, pressioni concorrenziali, hanno sviluppato una forma di intelligenza reattiva. Hanno imparato a contenere i costi senza impoverire il valore, a diversificare senza disperdersi, a leggere i segnali deboli di un cambiamento prima che diventi uno squilibrio. La turbolenza, per loro, non è uno scandalo: è un linguaggio.

Accanto a queste, altre realtà cresciute in nicchie protette, sostenute da mercati stabili o da rapporti privilegiati, si sono sviluppate in altezza più che in profondità. Hanno moltiplicato le filiali, ampliato i margini, automatizzato i processi. Ma senza che si forgiassero meccanismi interni di adattamento, senza l’abitudine a domande che non hanno risposta immediata. Quando la pressione arriva, quando i costi salgono o la domanda cambia volto, quella snellezza iniziale si rivela fragilità strutturale.

Nel silenzio delle serre o nella furia dei venti, non è la crescita in sé a fare la differenza, ma il modo in cui essa si combina con la resistenza. Così le imprese che attraversano le turbolenze non sempre emergono più grandi, ma spesso ne escono più pronte. Pronte non solo a resistere, ma a rigenerarsi nel mutamento.

Il vento, in fondo, non è nemico dell’albero. È parte della sua architettura. E forse lo stesso vale per il mercato: non c’è crisi che non contenga, per chi è preparato, l’inizio di una nuova forma di solidità.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

15/04/2025

Mentre si rimanda la vita passa

Dum differtur, vita transcurrit. Mentre si rimanda, la vita passa. E con essa, le occasioni, le finestre di cambiamento, le possibilità di evolvere prima che la realtà lo imponga con brutalità.

Nella vita d’impresa, il tempo ha una doppia natura: è risorsa e tiranno. Ogni giorno porta con sé una moltitudine di urgenze che reclamano attenzione immediata — scadenze da rispettare, clienti da accontentare, imprevisti da contenere. Ma nel rincorrere ciò che brucia, ciò che è vicino e pressante, spesso si sacrifica ciò che è importante, ma non urgente: l’innovazione, la pianificazione, la trasformazione. È lì che si annida la vera minaccia. Non nei problemi di oggi, ma nel ritardo sistematico con cui si affrontano quelli di domani.

Molti imprenditori si riconoscono in questa trappola: sapere cosa andrebbe fatto, ma non avere mai il “momento giusto” per farlo. Eppure la storia insegna, e lo fa in modo inequivocabile. Kodak sapeva che il futuro era digitale, eppure rimandò. Blockbuster intuì il cambiamento, ma non lo abbracciò. Nokia aveva le risorse per guidare l’era degli smartphone, ma esitò. Yahoo vide passare sotto il naso Google e poi Facebook, ma non seppe scegliere. In ogni caso, la procrastinazione non fu un errore di valutazione: fu una scelta, spesso inconsapevole, di rinviare ciò che faceva paura affrontare subito.

Chi guida una piccola o media impresa oggi si trova in un contesto simile, sebbene meno eclatante. L’evoluzione digitale, l’automazione, la sostenibilità, il ripensamento dei modelli organizzativi… sono temi noti, discussi, perfino condivisi a parole. Ma quanti li affrontano davvero con la priorità che meritano? Quanti trovano il tempo, lo spazio mentale e strategico, per dire: “Lo faccio ora, prima che sia troppo tardi”? Pochi. Troppo pochi.

Eppure, l’imprenditore che sa sottrarsi al fascino tossico dell’urgenza e riorientare la bussola sulle vere priorità costruisce un vantaggio solido, duraturo. Non è una questione di tecnologia o di budget: è una questione di mentalità. Di lucidità. Di coraggio.

Il cambiamento, infatti, non aspetta che tu sia pronto. E il tempo che immagini di risparmiare rinviando, lo pagherai con interessi altissimi nel futuro. L’abitudine a rimandare — che si maschera spesso da prudenza, cautela o gestione oculata — è, in realtà, una forma sottile di autodistruzione. Non perché tu scelga il fallimento, ma perché gli lasci campo libero mentre sei occupato altrove.

Ciò che distingue chi cresce da chi resiste — e poi lentamente scompare — non è la dimensione, né il settore, né la fortuna. È la capacità di agire in tempo. Non perfettamente, ma in tempo. Di scegliere oggi quello che tutti sceglieranno domani, quando sarà troppo tardi per farne un vantaggio.

Il futuro non è mai un evento lontano: è un’onda che si forma ora, sotto i tuoi piedi. Decidere di affrontarla oggi, anche con strumenti imperfetti, è mille volte meglio che aspettare che ti travolga. Perché, come ammoniva Seneca, dum differtur, vita transcurrit. E nel mondo dell’impresa, la vita che passa è il mercato che cambia, il cliente che migra, la concorrenza che accelera. È il tempo che non ti aspetta.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

09/04/2025

Azienda e Umanesimo: la nuova leadership

La partecipazione all’incontro “Filosofia, Impresa e Innovazione” organizzato dall’Università di Bergamo è stata un’occasione stimolante per riflettere su un cambiamento già in atto ma ancora sottovalutato nei nostri contesti europei: l’integrazione del pensiero filosofico all’interno delle strutture aziendali, non come ornamento culturale, ma come strumento essenziale di gestione e visione strategica.

La figura del Chief Philosophy Officer (CPO), già presente in molte delle principali aziende statunitensi, rappresenta una risposta evolutiva a una crisi più profonda: quella del pensiero. In un’epoca in cui i processi decisionali sono spesso guidati da metriche immediate, algoritmi e analisi riduzioniste, la presenza del CPO vuole rimettere al centro il pensiero critico, sistemico, laterale. L’intelligenza analitica da sola non basta più: il mondo contemporaneo richiede flessibilità mentaleapertura alla complessità, e la capacità di vedere connessioni là dove altri vedono compartimenti stagni. Non è un caso che, negli Stati Uniti, la laurea in filosofia sia tra le più ricercate nel mondo aziendale: il pensiero filosofico non insegna cosa pensare, ma come pensare. Ed è proprio questa capacità che diventa fondamentale quando si devono affrontare l’ambiguità, l’incertezza, la trasformazione.

Lo spin-off N.E.X.T., diretto dalla D.ssa Valeria Trabattoni, si inserisce perfettamente in questa prospettiva, proponendo un’innovazione culturale e formativa che potrebbe rivelarsi determinante per il futuro del management e dell’organizzazione aziendale. L’idea che l’impresa non sia solo luogo di produzione e profitto, ma spazio di senso, comunità, trasformazione sociale, è il cuore di una visione umanistica dell’economia, ben lontana dalla logica ultra-capitalistica che oggi mostra tutti i suoi limiti sistemici ed etici.

È fondamentale oggi che manager e imprenditori si impegnino in un percorso di consapevolezza, che li aiuti ad uscire da visioni meccanicistiche e lineari dell’azienda e della società. Questa transizione non può essere solo strategica o operativa: deve essere interiore, culturale, e persino spirituale. La riduzione dell’uomo a produttore e consumatore ha creato squilibri profondi: burnout, disconnessione sociale, perdita di senso. Serve un riposizionamento del capitale, che non può essere visto solo come fine e mezzo unico dell’azione economica, ma come strumento al servizio del bene comune. Le imprese devono tornare a essere motore di una società sana, sostenibile e fondata sulla dignità del lavoro.

Da questa prospettiva nasce una convinzione forte: chi detiene potere o assume ruoli di leadership ha il dovere etico di intraprendere un percorso umanistico, che non si limiti alla conoscenza teorica, ma includa una trasformazione personale. Non è possibile oggi guidare un’organizzazione in modo autentico senza prima aver esplorato la propria interiorità, senza aver riconosciuto i propri bias cognitivi, senza aver fatto i conti con i meccanismi di proiezione e le reazioni automatiche che spesso derivano da ferite psico-emotive non elaborate. Il vero leader non è colui che sa tutto, ma colui che è disposto a mettere in discussione la propria mappa mentale, a riconoscere i limiti della propria prospettiva, e soprattutto a coltivare empatia e presenza.

Questo cammino porta naturalmente a una dimensione transpersonale, in cui il soggetto supera la centralità del proprio ego e inizia a pensare e agire in modo sistemico, integrato, interconnesso. Solo chi ha sperimentato questa espansione della coscienza può veramente abbracciare il pensiero lateralel’intelligenza collettiva, e l’etica della responsabilità che oggi sono richieste per affrontare le sfide globali, ambientali, sociali e tecnologiche.

In sintesi, la figura del CPO e iniziative come N.E.X.T. ci indicano una direzione chiara: il futuro dell’impresa passa per la filosofia, l’umanesimo, la consapevolezza. Non si tratta di aggiungere un “tocco etico” a processi già esistenti, ma di trasformare alla radice il modo in cui pensiamo l’economia, il lavoro, il potere. In questo senso, ogni leader è chiamato a diventare prima di tutto filosofo della propria esperienza, e solo in questo modo potrà contribuire a costruire organizzazioni autenticamente innovative, sostenibili e al servizio della vita.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

02/04/2025