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La Rivincita delle PMI: come il Crowdfunding sta riscrivendo le regole della Finanza

Negli ultimi anni, il sistema di finanziamento delle imprese ha subito una trasformazione silenziosa ma radicale, spinta da una combinazione di evoluzioni tecnologiche, nuovi bisogni imprenditoriali e cambiamenti nei comportamenti degli investitori. In questo panorama in mutamento, la quotazione in Borsa, un tempo vetta ambita e traguardo simbolico dell’impresa affermata, appare oggi sempre più come un retaggio del passato, affaticata da costi proibitivi e da una macchina burocratica pesante e dispersiva. In parallelo, si assiste a una progressiva ascesa dell’equity crowdfunding, divenuto strumento privilegiato per una fascia crescente di piccole e medie imprese italiane desiderose di crescere senza perdere controllo e visione.

Nel 2023 si sono registrate 36 nuove quotazioni in Italia, di cui 4 su Euronext Milan, il segmento principale, e 32 su Euronext Growth Milan, la piattaforma dedicata alle PMI. La raccolta complessiva ammontava a circa 1,56 miliardi di euro. Tuttavia, nel 2024, il numero di IPO è sceso drasticamente a 19, segnalando un calo sostanziale, sia in termini numerici che di appetito verso questa modalità di accesso al capitale. Una contrazione che non sembra dovuta soltanto alla congiuntura macroeconomica, ma a un fenomeno più strutturale e profondo.

Contemporaneamente, l’equity crowdfunding ha registrato segnali di dinamismo significativi. Tra luglio 2023 e luglio 2024, in Italia, le campagne di raccolta hanno totalizzato oltre 106 milioni di euro, con una raccolta media per singola iniziativa salita a 593.000 euro, in netto aumento rispetto ai 444.000 euro del 2023. Numeri che testimoniano come sempre più imprenditori stiano optando per soluzioni agili, accessibili e maggiormente compatibili con la natura stessa delle PMI italiane: snelle, innovative, radicate nel territorio ma ambiziose sul fronte della crescita.

La divergenza tra questi due mondi è resa ancora più marcata se si guarda al confronto sui costi. Avviare una quotazione in Borsa implica sostenere spese molto elevate: dai consulenti legali agli studi notarili, dai revisori indipendenti agli advisor finanziari, senza dimenticare la redazione del prospetto informativo e le spese di marketing e comunicazione, il conto finale può facilmente raggiungere il 10-12% del capitale raccolto. Un onere che grava interamente sulla società emittente e che, spesso, deve essere sostenuto in larga parte prima ancora del successo dell’operazione. Al contrario, nel crowdfunding, i costi sono contenuti e direttamente proporzionali alla raccolta: le principali piattaforme italiane applicano commissioni tra il 5% e l’8%, talvolta comprensive anche dei servizi di consulenza e supporto.

Ma la questione economica è solo una parte del problema. La struttura stessa delle società quotate impone un regime di trasparenza e controllo che, per molte PMI, si trasforma in un fardello quotidiano. Obblighi di pubblicazione delle semestrali, aggiornamenti continui al mercato, compliance ai codici di corporate governance e adempimenti ESG diventano attività centrali per l’amministrazione e la direzione finanziaria. Un impegno che toglie tempo, risorse e concentrazione dalla pianificazione strategica, inducendo spesso le imprese a ragionare in ottica trimestrale piuttosto che a medio-lungo termine. La Borsa, più che un volano per lo sviluppo, si trasforma così in una gabbia dorata, nella quale la gestione risponde più alle esigenze burocratiche e agli equilibri politici degli investitori istituzionali che alla visione autentica dell’imprenditore.

In netta controtendenza, il crowdfunding offre una via alternativa che coniuga accesso ai capitali con libertà gestionale. I capitali raccolti arrivano da una platea di investitori diffusi, organizzati spesso attraverso veicoli fiduciari che non interferiscono nella governance dell’impresa. Ciò permette agli imprenditori di conservare intatta la propria autonomia decisionale, senza dover negoziare ogni mossa con fondi di investimento o rappresentanti in consiglio d’amministrazione. La relazione che si crea tra impresa e investitore è più simile a un patto fiduciario che a un contratto vincolante: si fonda sulla fiducia, sulla visione condivisa e sul senso di partecipazione al successo di un progetto comune.

Questa transizione non è solo tecnica o finanziaria, ma anche culturale. La finanza tradizionale, centralizzata, opaca e strutturalmente orientata ai grandi numeri, mostra oggi tutti i suoi limiti nel confrontarsi con un’economia che si muove su altri piani: più rapidi, più digitali, più inclusivi. Il crowdfunding, e più in generale l’ecosistema fintech, restituisce al risparmio privato il suo ruolo attivo, disintermediando le strutture bancarie e offrendo strumenti di investimento accessibili, trasparenti e coerenti con le logiche della nuova imprenditorialità. È un cambiamento di paradigma, che ridefinisce il concetto stesso di finanza: da strumento speculativo a leva di sviluppo partecipato.

Se non vi sarà una riforma profonda, non solo normativa ma anche culturale, il rischio è che le Borse, e con esse l’intero impianto della finanza istituzionale, continuino a scivolare in una decadenza silenziosa ma inesorabile. Le PMI, che costituiscono la spina dorsale del sistema economico italiano, non possono permettersi di essere frenate da apparati pesanti e obsoleti. Chiedono soluzioni agili, trasparenti, efficienti. E il mercato, quando non trova risposte nei canali ufficiali, se le costruisce da sé.

Noi siamo pronti e operativi, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

06/05/2025

Il rischio consapevole: tra impresa, investimento e visione

Nel mondo degli affari, così come in quello degli investimenti, il concetto di rischio è spesso frainteso o semplificato. Si tende comunemente ad associare il rischio alla sola possibilità di perdita, alla minaccia che qualcosa possa andare storto rispetto ai piani previsti. Tuttavia, una visione più articolata e realistica riconosce che il rischio rappresenta innanzitutto una dimensione di aleatorietà, una zona grigia dove coesistono potenziale perdita e possibile guadagno. Senza rischio, infatti, non esisterebbe nemmeno la possibilità di ottenere rendimenti significativi: è proprio la variabilità, l’imprevedibilità degli esiti, a creare lo spazio per opportunità fuori dall’ordinario.

Questa osservazione è particolarmente evidente quando si esamina la dinamica del profitto in un mercato concorrenziale. In condizioni di concorrenza perfetta, con informazioni simmetriche e accesso uguale alle risorse, i margini tendono a comprimersi. I profitti si appiattiscono, e i ritorni diventano prevedibili quanto modesti. Il rischio, dunque, diventa la risorsa scarsa, ciò che può ancora generare vantaggio competitivo. È per questo che molti imprenditori, in modo istintivo o consapevole, cercano contesti in cui l’incertezza non è ancora stata domata — settori nuovi, mercati emergenti, tecnologie non ancora mature.

Anche nei casi di monopolio, che potrebbero apparire come esenti da rischi, la situazione è solo apparentemente stabile. Un monopolio garantisce profitti elevati finché dura, ma porta con sé un rischio implicito e sistemico: quello di una perdita di competitività nel momento in cui il mercato si apre alla concorrenza o si evolve. Il monopolista, abituato a dominare senza dover migliorare, potrebbe non reggere il confronto con nuovi entranti più agili, più innovativi, più affamati. In questo senso, il vero rischio del monopolio è la perdita dell’adattabilità.

In un celebre aforisma, si definisce l’imprenditore come “colui che si tuffa da un dirupo e costruisce un aeroplano durante la caduta”. L’immagine è potente e volutamente estrema, ma coglie una verità essenziale: fare impresa significa spesso agire prima di avere tutte le risposte, scommettere sulle proprie capacità di adattamento, su un intuito visionario che precede l’analisi completa. Ma attenzione: questa non è un’apologia dell’improvvisazione. È piuttosto la descrizione di una dinamica dove il calcolo razionale coesiste con il coraggio dell’azione.

Per affrontare il rischio in modo proficuo, occorre ciò che potremmo definire una “spregiudicata ragionevolezza”. Spregiudicata, nel senso di non irrigidita da regole formali o timori paralizzanti; ragionevole, nel senso di profondamente consapevole delle implicazioni delle proprie scelte. In altre parole, non si tratta di essere temerari, ma nemmeno di attendere che tutte le condizioni siano perfette. Il rischio va riconosciuto, misurato, e abbracciato, non evitato a ogni costo.

È qui che si può richiamare una metafora classica: la differenza tra Icaro e Pitagora. Il primo vola troppo vicino al sole, inebriato da un’ambizione senza misura, e finisce per bruciarsi le ali. Il secondo osserva, calcola, conosce le leggi dell’armonia, e forse proprio per questo riesce a volare più a lungo, più lontano. Il rischio non è il nemico: l’ignoranza del rischio lo è. Le due ali che permettono di volare senza precipitare sono la consapevolezza e il controllo — senza di esse, il salto nel vuoto resta solo una caduta.

L’arte di fare impresa o investimenti non sta nell’eliminare il rischio, bensì nel governarlo. Serve intuizione, certo, ma anche metodo. Serve visione, ma anche verifica costante. Chi sa danzare sull’orlo del precipizio, senza farsi risucchiare, può davvero costruire qualcosa che vola. Non si tratta di sfidare il destino, ma di saperci dialogare. È questa la vera alchimia dell’imprenditorialità: un equilibrio dinamico tra ardimento e riflessione.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

30/04/2025

PMI e Finanza Straordinaria

Negli ultimi anni, il concetto di finanza straordinaria ha assunto una centralità sempre più marcata nelle strategie di sviluppo delle PMI. Di fronte a un credito bancario tradizionale sempre più selettivo e oneroso, molte imprese hanno cominciato a esplorare soluzioni alternative per sostenere la crescita, migliorare la liquidità o ristrutturare il proprio debito. Gli strumenti a disposizione sono molteplici, ciascuno con caratteristiche proprie, vantaggi e limiti che vanno compresi a fondo per poterne fare un uso realmente efficace.

Il crowdfunding, in particolare, si è affermato come uno degli strumenti più accessibili, diffondendosi sia nella sua forma equity sia in quella lending. Nel primo caso, attraverso piattaforme online, le imprese aprono il proprio capitale sociale a una moltitudine di investitori, raccogliendo risorse fresche senza generare nuovo debito. Questo permette di rafforzare la struttura patrimoniale e migliorare l’immagine creditizia, ma richiede la disponibilità ad accettare una certa diluizione della proprietà aziendale, con tutti i riflessi anche in termini di governance e comunicazione verso nuovi soci. Nel caso del lending crowdfunding, invece, l’impresa ottiene finanziamenti sotto forma di prestito da parte di una pluralità di investitori, mantenendo intatto il controllo societario ma assumendosi l’onere della restituzione del capitale con gli interessi pattuiti. Il vantaggio principale risiede nella rapidità dell’operazione e nella possibilità di costruire un piano di rimborso più flessibile rispetto a quello bancario, anche se i tassi di interesse possono risultare più elevati, soprattutto in funzione del rischio percepito dagli investitori.

Accanto al crowdfunding, si è sviluppato il mercato della cessione dei crediti commerciali attraverso piattaforme digitali di invoice trading. Questo strumento consente alle imprese di cedere singole fatture a investitori o operatori specializzati, ottenendo immediatamente liquidità senza dover attendere i tempi di pagamento concordati con i clienti. La grande forza di questa soluzione è la possibilità di intervenire in modo selettivo su specifici crediti, senza dover vincolare l’intero portafoglio. Tuttavia, la valutazione del credito ceduto e il profilo di rischio del cliente possono influenzare significativamente il prezzo di cessione, con una riduzione del valore nominale della fattura che, in alcune situazioni, può risultare non trascurabile.

Il reverse factoring rappresenta un’altra modalità evoluta di gestione del capitale circolante. A differenza del factoring tradizionale, è il cliente finale – generalmente di grandi dimensioni – a coinvolgere un operatore finanziario per anticipare i pagamenti ai suoi fornitori. Per le PMI fornitrici si tratta di un’opportunità importante: si ottiene liquidità immediata, si riducono i tempi di incasso e si migliora la posizione finanziaria, spesso a condizioni più favorevoli rispetto al credito bancario. Il rovescio della medaglia è che il reverse factoring è strettamente legato alla solidità e alla volontà del cliente capofiliera; se quest’ultimo dovesse modificare strategia o ridimensionare il programma, il fornitore potrebbe ritrovarsi improvvisamente senza accesso a questa forma di liquidità.

Tra gli strumenti più strutturati e sofisticati si collocano infine i minibond. Attraverso l’emissione di questi titoli di debito, le PMI possono raccogliere fondi presso investitori istituzionali per finanziare progetti di crescita, investimenti strategici o operazioni straordinarie. I minibond offrono il vantaggio di ottenere importi significativi su orizzonti temporali medio-lunghi, spesso con modalità di rimborso flessibili. Al contempo, richiedono una struttura aziendale adeguata a sostenere il peso di un’operazione finanziaria complessa: piani industriali solidi, bilanci certificati, sistemi di controllo interno robusti e una capacità dimostrata di generare cassa sufficiente per onorare il servizio del debito. Il costo di emissione e gestione non è trascurabile e l’accesso a questi strumenti è di fatto riservato alle imprese che presentano un profilo economico-finanziario sufficientemente sano e trasparente.

Nonostante la varietà di soluzioni disponibili, nessuno di questi strumenti può essere considerato la “formula magica” per tutte le imprese. Ogni opzione richiede una valutazione attenta e personalizzata in base alle caratteristiche specifiche dell’azienda, ai suoi obiettivi di crescita, alla struttura patrimoniale e alla capacità di sostenere l’impegno finanziario nel tempo. L’errore più grave sarebbe quello di scegliere uno strumento di finanza straordinaria esclusivamente sulla base della rapidità di accesso o della moda del momento, senza una vera analisi strategica delle implicazioni operative, finanziarie e patrimoniali.

In un mercato in rapida evoluzione e sempre più competitivo, le imprese che sapranno approcciare questi strumenti con metodo, competenza e visione potranno trasformare la finanza straordinaria da semplice necessità contingente a leva di crescita strutturale. Una finanza non più subita, ma governata con intelligenza e consapevolezza, capace di diventare un alleato prezioso nella costruzione di un futuro solido e sostenibile.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

23/04/2025

Abbraccia il vento del cambiamento

Nel cuore delle serre protette, le piante si innalzano rapide verso la luce, incoraggiate da un ambiente costante, privo di scosse, dove il sole filtra in modo calibrato e l’umidità è sempre sotto controllo. I loro fusti si slanciano con eleganza, sottili, spesso flessuosi. Ma basta un evento imprevisto, una corrente d’aria, uno squilibrio nel terreno, un cambiamento improvviso di temperatura, perché quei rami, cresciuti senza resistenza, inizino a piegarsi, spezzarsi, cedere sotto un peso minimo. È allora che emerge la differenza tra crescita e solidità.

All’esterno, nel mondo esposto, gli alberi modellano il proprio carattere nel confronto costante con il vento. Le raffiche li fanno ondeggiare, li scuotono, talvolta li feriscono. Ma quell’agitazione non è mai vana. I tessuti si ispessiscono, le fibre si rafforzano, le radici affondano più a fondo. La pianta non diventa semplicemente più alta, diventa stabile. Non solo vive: sopravvive.

In tempi di mercati incerti, l’economia non è diversa. Le piccole e medie imprese che da tempo attraversano condizioni avverse, mutamenti normativi, variazioni improvvise nella domanda, pressioni concorrenziali, hanno sviluppato una forma di intelligenza reattiva. Hanno imparato a contenere i costi senza impoverire il valore, a diversificare senza disperdersi, a leggere i segnali deboli di un cambiamento prima che diventi uno squilibrio. La turbolenza, per loro, non è uno scandalo: è un linguaggio.

Accanto a queste, altre realtà cresciute in nicchie protette, sostenute da mercati stabili o da rapporti privilegiati, si sono sviluppate in altezza più che in profondità. Hanno moltiplicato le filiali, ampliato i margini, automatizzato i processi. Ma senza che si forgiassero meccanismi interni di adattamento, senza l’abitudine a domande che non hanno risposta immediata. Quando la pressione arriva, quando i costi salgono o la domanda cambia volto, quella snellezza iniziale si rivela fragilità strutturale.

Nel silenzio delle serre o nella furia dei venti, non è la crescita in sé a fare la differenza, ma il modo in cui essa si combina con la resistenza. Così le imprese che attraversano le turbolenze non sempre emergono più grandi, ma spesso ne escono più pronte. Pronte non solo a resistere, ma a rigenerarsi nel mutamento.

Il vento, in fondo, non è nemico dell’albero. È parte della sua architettura. E forse lo stesso vale per il mercato: non c’è crisi che non contenga, per chi è preparato, l’inizio di una nuova forma di solidità.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

15/04/2025

Mentre si rimanda la vita passa

Dum differtur, vita transcurrit. Mentre si rimanda, la vita passa. E con essa, le occasioni, le finestre di cambiamento, le possibilità di evolvere prima che la realtà lo imponga con brutalità.

Nella vita d’impresa, il tempo ha una doppia natura: è risorsa e tiranno. Ogni giorno porta con sé una moltitudine di urgenze che reclamano attenzione immediata — scadenze da rispettare, clienti da accontentare, imprevisti da contenere. Ma nel rincorrere ciò che brucia, ciò che è vicino e pressante, spesso si sacrifica ciò che è importante, ma non urgente: l’innovazione, la pianificazione, la trasformazione. È lì che si annida la vera minaccia. Non nei problemi di oggi, ma nel ritardo sistematico con cui si affrontano quelli di domani.

Molti imprenditori si riconoscono in questa trappola: sapere cosa andrebbe fatto, ma non avere mai il “momento giusto” per farlo. Eppure la storia insegna, e lo fa in modo inequivocabile. Kodak sapeva che il futuro era digitale, eppure rimandò. Blockbuster intuì il cambiamento, ma non lo abbracciò. Nokia aveva le risorse per guidare l’era degli smartphone, ma esitò. Yahoo vide passare sotto il naso Google e poi Facebook, ma non seppe scegliere. In ogni caso, la procrastinazione non fu un errore di valutazione: fu una scelta, spesso inconsapevole, di rinviare ciò che faceva paura affrontare subito.

Chi guida una piccola o media impresa oggi si trova in un contesto simile, sebbene meno eclatante. L’evoluzione digitale, l’automazione, la sostenibilità, il ripensamento dei modelli organizzativi… sono temi noti, discussi, perfino condivisi a parole. Ma quanti li affrontano davvero con la priorità che meritano? Quanti trovano il tempo, lo spazio mentale e strategico, per dire: “Lo faccio ora, prima che sia troppo tardi”? Pochi. Troppo pochi.

Eppure, l’imprenditore che sa sottrarsi al fascino tossico dell’urgenza e riorientare la bussola sulle vere priorità costruisce un vantaggio solido, duraturo. Non è una questione di tecnologia o di budget: è una questione di mentalità. Di lucidità. Di coraggio.

Il cambiamento, infatti, non aspetta che tu sia pronto. E il tempo che immagini di risparmiare rinviando, lo pagherai con interessi altissimi nel futuro. L’abitudine a rimandare — che si maschera spesso da prudenza, cautela o gestione oculata — è, in realtà, una forma sottile di autodistruzione. Non perché tu scelga il fallimento, ma perché gli lasci campo libero mentre sei occupato altrove.

Ciò che distingue chi cresce da chi resiste — e poi lentamente scompare — non è la dimensione, né il settore, né la fortuna. È la capacità di agire in tempo. Non perfettamente, ma in tempo. Di scegliere oggi quello che tutti sceglieranno domani, quando sarà troppo tardi per farne un vantaggio.

Il futuro non è mai un evento lontano: è un’onda che si forma ora, sotto i tuoi piedi. Decidere di affrontarla oggi, anche con strumenti imperfetti, è mille volte meglio che aspettare che ti travolga. Perché, come ammoniva Seneca, dum differtur, vita transcurrit. E nel mondo dell’impresa, la vita che passa è il mercato che cambia, il cliente che migra, la concorrenza che accelera. È il tempo che non ti aspetta.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

09/04/2025

Azienda e Umanesimo: la nuova leadership

La partecipazione all’incontro “Filosofia, Impresa e Innovazione” organizzato dall’Università di Bergamo è stata un’occasione stimolante per riflettere su un cambiamento già in atto ma ancora sottovalutato nei nostri contesti europei: l’integrazione del pensiero filosofico all’interno delle strutture aziendali, non come ornamento culturale, ma come strumento essenziale di gestione e visione strategica.

La figura del Chief Philosophy Officer (CPO), già presente in molte delle principali aziende statunitensi, rappresenta una risposta evolutiva a una crisi più profonda: quella del pensiero. In un’epoca in cui i processi decisionali sono spesso guidati da metriche immediate, algoritmi e analisi riduzioniste, la presenza del CPO vuole rimettere al centro il pensiero critico, sistemico, laterale. L’intelligenza analitica da sola non basta più: il mondo contemporaneo richiede flessibilità mentaleapertura alla complessità, e la capacità di vedere connessioni là dove altri vedono compartimenti stagni. Non è un caso che, negli Stati Uniti, la laurea in filosofia sia tra le più ricercate nel mondo aziendale: il pensiero filosofico non insegna cosa pensare, ma come pensare. Ed è proprio questa capacità che diventa fondamentale quando si devono affrontare l’ambiguità, l’incertezza, la trasformazione.

Lo spin-off N.E.X.T., diretto dalla D.ssa Valeria Trabattoni, si inserisce perfettamente in questa prospettiva, proponendo un’innovazione culturale e formativa che potrebbe rivelarsi determinante per il futuro del management e dell’organizzazione aziendale. L’idea che l’impresa non sia solo luogo di produzione e profitto, ma spazio di senso, comunità, trasformazione sociale, è il cuore di una visione umanistica dell’economia, ben lontana dalla logica ultra-capitalistica che oggi mostra tutti i suoi limiti sistemici ed etici.

È fondamentale oggi che manager e imprenditori si impegnino in un percorso di consapevolezza, che li aiuti ad uscire da visioni meccanicistiche e lineari dell’azienda e della società. Questa transizione non può essere solo strategica o operativa: deve essere interiore, culturale, e persino spirituale. La riduzione dell’uomo a produttore e consumatore ha creato squilibri profondi: burnout, disconnessione sociale, perdita di senso. Serve un riposizionamento del capitale, che non può essere visto solo come fine e mezzo unico dell’azione economica, ma come strumento al servizio del bene comune. Le imprese devono tornare a essere motore di una società sana, sostenibile e fondata sulla dignità del lavoro.

Da questa prospettiva nasce una convinzione forte: chi detiene potere o assume ruoli di leadership ha il dovere etico di intraprendere un percorso umanistico, che non si limiti alla conoscenza teorica, ma includa una trasformazione personale. Non è possibile oggi guidare un’organizzazione in modo autentico senza prima aver esplorato la propria interiorità, senza aver riconosciuto i propri bias cognitivi, senza aver fatto i conti con i meccanismi di proiezione e le reazioni automatiche che spesso derivano da ferite psico-emotive non elaborate. Il vero leader non è colui che sa tutto, ma colui che è disposto a mettere in discussione la propria mappa mentale, a riconoscere i limiti della propria prospettiva, e soprattutto a coltivare empatia e presenza.

Questo cammino porta naturalmente a una dimensione transpersonale, in cui il soggetto supera la centralità del proprio ego e inizia a pensare e agire in modo sistemico, integrato, interconnesso. Solo chi ha sperimentato questa espansione della coscienza può veramente abbracciare il pensiero lateralel’intelligenza collettiva, e l’etica della responsabilità che oggi sono richieste per affrontare le sfide globali, ambientali, sociali e tecnologiche.

In sintesi, la figura del CPO e iniziative come N.E.X.T. ci indicano una direzione chiara: il futuro dell’impresa passa per la filosofia, l’umanesimo, la consapevolezza. Non si tratta di aggiungere un “tocco etico” a processi già esistenti, ma di trasformare alla radice il modo in cui pensiamo l’economia, il lavoro, il potere. In questo senso, ogni leader è chiamato a diventare prima di tutto filosofo della propria esperienza, e solo in questo modo potrà contribuire a costruire organizzazioni autenticamente innovative, sostenibili e al servizio della vita.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

02/04/2025

Bandi a click day – o click bait?

È ormai esperienza comune tra le PMI italiane: i bandi a fondo perduto, soprattutto quelli con meccanismi di click day, finiscono per sembrare più una lotteria che un reale strumento di crescita. L’idea iniziale è allettante: risorse pubbliche per sostenere l’innovazione, la digitalizzazione, la transizione ecologica. Ma la realtà è spesso un’altra. In pochi secondi – letteralmente – le risorse si esauriscono. Tutto si gioca sulla velocità con cui si invia la domanda, non sulla qualità del progetto. E chi non riesce a cliccare nel millisecondo giusto resta fuori. Anche se ha investito mesi di lavoro, pagato consulenti, predisposto documenti, calcoli, strategie.

Ci sono imprese che si preparano per mesi, magari affidandosi a società di consulenza specializzate, per poi vedersi escluse semplicemente perché la connessione era più lenta del previsto. La frustrazione è doppia: non solo si perde l’occasione, ma si sono già spese risorse importanti. I numeri parlano chiaro. In certi bandi, come quelli per macchinari innovativi o digitalizzazione, il 90-95% delle domande viene scartato non per mancanza di requisiti, ma per mancanza di fondi. E in alcuni casi le risorse si esauriscono in meno di dieci secondi. Non è difficile capire perché molti inizino a guardare questi bandi con sospetto, come fossero più un click bait ben confezionato che una reale opportunità.

Intanto, intorno a questi bandi cresce un ecosistema di società che offrono pacchetti “chiavi in mano” per presentare la domanda in modo ultrarapido, spesso con software automatizzati. La selezione, però, non premia il merito né la visione imprenditoriale, ma la rapidità tecnica. E così si crea un cortocircuito: l’impresa si impegna, si organizza, investe… e poi si ritrova con un pugno di mosche.

La domanda allora sorge spontanea: non sarebbe più sensato dirottare tutte queste energie verso una direzione diversa? Invece di rincorrere contributi aleatori, perché non puntare a rafforzare davvero la struttura dell’impresa?

Molte PMI avrebbero tutto da guadagnare se concentrassero i loro sforzi su una gestione trasparente, su bilanci ordinati, su un controllo di gestione serio e continuo. Strumenti come il business plan, il budget, il cash flow previsionale, se ben costruiti e aggiornati, diventano armi potentissime per attrarre capitali, sia in forma di credito che di investimenti. Anche la governance conta: chiarezza nei ruoli, regole interne definite, compliance normativa. Tutti elementi che agli occhi di un investitore o di un istituto di credito fanno la differenza.

Le opportunità vere esistono, ma non si trovano nel centesimo di secondo di un click. Si trovano nella capacità di rendersi solidi, credibili, scalabili. Molte agevolazioni non prevedono click day, ma premiano chi dimostra di avere una struttura sana e obiettivi chiari. Il credito ordinario, se ben negoziato e supportato da garanzie pubbliche, può essere una leva potente. E c’è tutto un mondo di investitori, anche in Italia, che cerca PMI ben gestite in cui entrare con capitale di rischio.

Alla fine, tutto si gioca su una scelta strategica. Continuare a inseguire bandi ipercompetitivi nella speranza di un contributo a fondo perduto, o lavorare per costruire un’impresa davvero appetibile per il mercato. Forse sarebbe il caso di spostare il click dal portale del Ministero al pulsante “trasformazione interna”. Meno spettacolare, certo. Ma infinitamente più solido.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

26/03/2025

I sottoconti sono più di un dettaglio

Nel contesto della gestione aziendale, un piano dei conti ben strutturato rappresenta una delle fondamenta su cui si basa il controllo di gestione, soprattutto quando si tratta di organizzare i dati contabili in modo chiaro e coerente. In particolare, l’accuratezza e la correttezza dei sottoconti di terzo livello all’interno del piano dei conti possono fare una grande differenza nella gestione dei centri di costo e, di conseguenza, nella capacità dell’azienda di pianificare e monitorare le proprie attività in modo efficace.

Un piano dei conti dettagliato, con una struttura gerarchica ben definita, consente di ottenere una visione chiara e immediata delle varie componenti aziendali. Se i sottoconti di terzo livello sono ben organizzati e coerenti con le specificità dell’azienda, diventa più semplice assegnare correttamente costi e ricavi ai vari centri di responsabilità. Questo permette ai manager di valutare in modo più preciso l’andamento di ciascuna area operativa, individuare eventuali inefficienze e adottare tempestivamente le opportune strategie correttive.

Ad esempio, in un’azienda manifatturiera, una classificazione accurata dei costi diretti e indiretti nei vari centri di costo può facilitare l’individuazione di margini operativi più realistici, evitando sovrastime o sottostime che potrebbero influenzare le decisioni strategiche. Questo livello di precisione è essenziale non solo per la gestione interna, ma anche per migliorare la qualità dell’informazione finanziaria da presentare agli stakeholder esterni.

Quando un piano dei conti è strutturato in modo da rispecchiare la realtà operativa dell’azienda, i report finanziari risultano più chiari e leggibili per tutti gli interlocutori, interni ed esterni. Gli stakeholder – siano essi investitori, istituti di credito, revisori contabili o fornitori – tendono a considerare con maggiore fiducia un’azienda che dimostra di avere un sistema contabile solido e trasparente.

Un aspetto spesso sottovalutato è l’effetto positivo di una buona organizzazione contabile sul rating dell’azienda. Le società di rating e le banche valutano non solo gli indicatori di bilancio, ma anche la qualità e l’affidabilità del reporting finanziario. Un piano dei conti ben definito e aderente alle best practices facilita la lettura del bilancio, riduce il rischio di errori o incongruenze e migliora la percezione di affidabilità dell’impresa.

Un altro aspetto cruciale è l’impatto che un piano dei conti ben organizzato ha sulla costruzione del piano industriale. Quando i dati contabili sono chiari, coerenti e dettagliati fino al livello necessario per un’analisi approfondita, è possibile costruire proiezioni economico-finanziarie più realistiche e fondate su basi solide. Ciò consente di definire obiettivi strategici più precisi e di monitorarne l’attuazione con strumenti di controllo di gestione efficaci.

Ad esempio, un’impresa che voglia avviare un piano di espansione ha bisogno di stimare con precisione i costi associati ai nuovi investimenti, le marginalità attese e i ritorni sugli investimenti. Se i dati contabili di partenza sono ben strutturati, le simulazioni finanziarie risulteranno più attendibili, riducendo il rischio di scelte errate basate su informazioni approssimative o incomplete.

La corretta organizzazione del piano dei conti, con un particolare focus sulla precisione e coerenza dei sottoconti di terzo livello, rappresenta un elemento chiave per un controllo di gestione efficace e per il miglioramento della trasparenza aziendale. Questo, a sua volta, incide positivamente sulla credibilità dell’impresa agli occhi di banche, investitori e altri stakeholder, contribuendo a migliorare il rating aziendale e facilitando l’accesso a finanziamenti e opportunità di crescita. Implementare queste best practices non è solo una questione di ordine amministrativo, ma un vero e proprio investimento strategico per il futuro dell’azienda.

Chi davvero vuole trova la strada

Chi davvero vuole, trova la strada; chi si aggrappa alle scuse, trova negli ostacoli un alibi.

Potrà sembrare un’affermazione banale o retorica, ma la capacità di non arrendersi di fronte alle difficoltà e di non fermarsi al terzo “no” è una qualità imprenditoriale fondamentale per il successo a lungo termine. Certo, non basta solo la determinazione: servono molte altre competenze e caratteristiche, che si possono apprendere e sviluppare. Tuttavia, senza questa energia interiore, si rischia di essere come le rive sabbiose battute dalle onde: le difficoltà finiscono per travolgerci e cancellare ciò che abbiamo costruito. Per avere successo, bisogna essere solidi come la roccia e flessibili come l’acqua.

Questo principio non vale solo per l’imprenditoria, ma per la crescita personale e la resilienza in ogni ambito della vita. La capacità di superare gli ostacoli distingue chi raggiunge i propri obiettivi da chi si arrende alle prime difficoltà.

La metafora della roccia e dell’acqua è particolarmente efficace: la solidità permette di mantenere la direzione senza lasciarsi travolgere dagli imprevisti, mentre la flessibilità consente di adattarsi ai cambiamenti senza spezzarsi. Troppa rigidità può portare alla rottura sotto la pressione, mentre un’eccessiva morbidezza rischia di disperdere le energie senza risultati concreti.

In campo imprenditoriale, così come nella vita, il successo è spesso il risultato dell’equilibrio tra resilienza e capacità di apprendimento. Saper trasformare i fallimenti in lezioni preziose e avere la costanza di proseguire sono elementi chiave. Come diceva Thomas Edison:

“Molti dei fallimenti della vita sono di persone che non si resero conto di quanto fossero vicine al successo quando si arresero.”

Le difficoltà, spesso viste come ostacoli, possono essere invece occasioni per distinguersi, per trovare soluzioni innovative e per compiere quel salto di qualità che fa avanzare aziende e organizzazioni. Non si tratta solo di resistenza o determinazione, ma di visione: la capacità di guardare oltre il problema e scorgere nuove opportunità di miglioramento, innovazione ed efficienza.

Le situazioni critiche mettono alla prova, ma proprio in quei momenti emergono le intuizioni più brillanti. Le crisi evidenziano inefficienze, costringono a ripensare le strategie e aiutano a distinguere ciò che funziona davvero da ciò che deve essere cambiato. Chi sa leggere tra le righe non si limita a superare l’ostacolo, ma lo trasforma in un trampolino di crescita, apprendimento ed evoluzione.

Il mercato premia chi sa adattarsi e anticipare il cambiamento. Non sopravvive chi è più forte o più intelligente, ma chi è capace di restare flessibile, comprendere il contesto e trovare nuove strade. La continuità e il successo derivano proprio da questa mentalità: non fermarsi di fronte ai problemi, ma usarli come occasione per migliorarsi.

La capacità di trasformare le difficoltà in opportunità non è solo una questione di resilienza, ma anche di strategia e innovazione. Le aziende e le organizzazioni che vedono le crisi come occasioni per differenziarsi non solo sopravvivono ai momenti difficili, ma spesso ne escono più forti, consolidando il proprio vantaggio competitivo.

La storia dell’imprenditoria è ricca di esempi di aziende che, anziché lasciarsi schiacciare dalle difficoltà, hanno trovato in esse lo stimolo per reinventarsi. Netflix, nata come servizio di noleggio DVD, ha saputo anticipare il boom dello streaming, trasformandosi prima che il mercato la rendesse obsoleta. Amazon, inizialmente un negozio online di libri, ha sfruttato le sfide della logistica tradizionale per sviluppare una rete di distribuzione efficiente, oggi alla base del suo dominio globale.

Le aziende di successo non si limitano a resistere alle onde del cambiamento, le cavalcano, trasformando le difficoltà in slancio competitivo. Questa è la differenza tra chi subisce il cambiamento e chi lo guida.

E secondo voi, quali sono le caratteristiche chiave che permettono alle aziende di trasformare le difficoltà in opportunità?

Articolo di Marco Simontacchi

05/03/2025

Contabilità e Finanza: Gemelli diversi

Immagina di essere alla guida di un’azienda, una piccola impresa o magari una grande multinazionale. Ogni giorno, devi destreggiarti tra numeri, scadenze, decisioni strategiche e operazioni quotidiane. Ecco che entrano in gioco due prospettive fondamentali ma profondamente diverse: la visione contabile-amministrativa e la visione di controllo e gestione finanziaria.

Da un lato, la visione contabile-amministrativa è un po’ come il cronista che annota meticolosamente ogni avvenimento. Il suo compito principale è registrare tutto ciò che accade all’interno dell’azienda, dalle fatture ai pagamenti, dagli acquisti alle vendite. È una visione saldamente ancorata al passato e al presente, con lo sguardo rivolto alla corretta rappresentazione della realtà aziendale secondo regole ben precise. Non è solo una questione di numeri, ma anche di conformità: bisogna rispettare le normative fiscali, produrre bilanci chiari e trasparenti, e garantire che ogni voce nei registri contabili sia al posto giusto. Insomma, è l’arte della precisione e della fedeltà ai fatti. Quando si parla di scadenze, qui tutto ruota intorno agli obblighi normativi: chiusure contabili periodiche, adempimenti fiscali e redazione del bilancio. La cadenza è spesso mensile, trimestrale o annuale, con un ritmo scandito più dalla legge che dalla dinamica dell’azienda.

Dall’altro lato, c’è la visione di controllo e gestione finanziaria, che potremmo paragonare a un navigatore che, con mappe e strumenti sofisticati, cerca la rotta migliore per portare la nave aziendale verso nuovi orizzonti. Questa prospettiva non si limita a guardare indietro, ma soprattutto guarda avanti, cercando di anticipare cosa accadrà e come prepararsi al meglio. Qui, i numeri non sono semplicemente registrati, ma analizzati, interpretati, proiettati nel futuro. L’obiettivo è ottimizzare le risorse, garantire la liquidità necessaria per affrontare qualsiasi situazione e, soprattutto, creare valore. Non ci sono solo bilanci da chiudere, ma budget da pianificare, flussi di cassa da monitorare e scenari futuri da immaginare. È un approccio molto più dinamico, che richiede un monitoraggio costante e un’adattabilità immediata ai cambiamenti del mercato. Le scadenze non sono rigide come nella contabilità, ma piuttosto flessibili e dipendenti dalle esigenze operative e strategiche dell’azienda. Qui si parla di gestione quotidiana della liquidità, della pianificazione degli incassi e dei pagamenti, e dell’analisi continua degli scostamenti rispetto alle previsioni.

Queste due visioni, pur così diverse, non sono in competizione tra loro. Anzi, nelle aziende più virtuose, lavorano in sinergia. La contabilità-amministrazione fornisce una base solida e affidabile, una sorta di “memoria storica” dell’azienda, mentre il controllo di gestione trasforma quei dati in strumenti utili per prendere decisioni consapevoli e mirate. In pratica, se la contabilità ti dice “ecco dove siamo”, il controllo di gestione aggiunge “ecco dove possiamo andare e come arrivarci”.

Saper bilanciare queste due prospettive significa, in ultima analisi, garantire all’azienda non solo di essere in regola e solida nel presente, ma anche pronta e reattiva per affrontare il futuro con sicurezza e determinazione.