Malo esse quam videri: il nuovo mantra del marketing
Negli ultimi anni si sta assistendo a un mutamento profondo nelle dinamiche tra imprese e consumatori, un cambiamento che non riguarda soltanto il modo in cui i prodotti vengono presentati, ma che tocca l’essenza stessa del rapporto fiduciario tra brand e pubblico. Per oltre un decennio, il mercato globale è stato dominato da un approccio fortemente incentrato sul marketing emozionale, dove la priorità era spesso catturare l’attenzione a ogni costo, anche a scapito della trasparenza. L’estetica, la narrazione, le strategie persuasive e la costruzione di identità di marca hanno assunto un ruolo centrale, al punto che la realtà del prodotto o servizio passava in secondo piano. L’obiettivo era sedurre, persuadere, convincere, spesso con una sofisticazione tale da rendere indistinguibili le promesse dalla realtà.
Tuttavia, proprio questa eccessiva esposizione a messaggi costruiti, talvolta artefatti o persino ingannevoli, ha progressivamente eroso la fiducia dei consumatori. I segnali in questo senso sono numerosi e convergenti. L’Edelman Trust Barometer 2024, un’analisi annuale che misura la fiducia nelle istituzioni, ha rivelato che solo il 42% dei consumatori globali si fida della pubblicità tradizionale o delle comunicazioni corporate. Ancora più significativo è il dato secondo cui il 60% degli intervistati ha dichiarato di aver perso fiducia in un marchio che in precedenza apprezzava, proprio a causa della discrepanza tra la narrazione proposta e l’effettiva esperienza d’uso.
Il fenomeno ha radici profonde, alimentate anche dall’evoluzione del marketing digitale. Le piattaforme social hanno offerto spazi illimitati per la diffusione di messaggi seducenti, ma spesso scollegati da qualunque verifica empirica. Tra il 2020 e il 2024, il costo per acquisizione (CPA) medio su piattaforme come Facebook e Instagram è aumentato di circa il 35%, mentre i tassi di conversione effettivi sono calati. Questo scollamento segnala chiaramente una crescente resistenza del pubblico: l’overload di messaggi pubblicitari genera saturazione cognitiva e, infine, disaffezione.
Anche sul piano regolamentare il problema è diventato evidente. In Italia, i dati dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) indicano un aumento del 27% nei procedimenti per pratiche commerciali scorrette tra il 2018 e il 2023. I settori più colpiti includono prodotti per il benessere, integratori, servizi educativi online e offerte finanziarie complesse. Questo incremento riflette non solo una maggiore attenzione delle autorità, ma anche una crescente pressione da parte dei consumatori per una maggiore correttezza e verificabilità delle affermazioni commerciali.
In parallelo a questo processo di disillusione, si sta consolidando un movimento opposto: un ritorno alla semplicità, all’autenticità, alla coerenza tra ciò che un’impresa promette e ciò che realmente offre. Non si tratta di una moda passeggera, bensì di una trasformazione strutturale nelle aspettative del mercato. Il concetto di “minimal marketing”, ovvero una comunicazione essenziale, diretta, rispettosa dell’intelligenza del cliente, sta guadagnando terreno proprio per la sua capacità di ristabilire un legame fiduciario.
I marchi che fondano la propria identità su valori concreti, verificabili, spesso non urlati ma incarnati coerentemente in ogni fase del processo produttivo e distributivo, stanno ottenendo risultati rilevanti in termini di fidelizzazione e reputazione. Un esempio paradigmatico è Patagonia, l’azienda fondata da Yvon Chouinard, che ha costruito la propria reputazione non attraverso promesse roboanti ma tramite scelte coerenti, anche controverse, come la decisione di destinare tutti i profitti futuri alla salvaguardia del pianeta. Non è un caso che i brand percepiti come autentici ottengano una fedeltà dei clienti tre volte superiore rispetto ai concorrenti focalizzati esclusivamente sulla seduzione di breve periodo.
A confermare questa tendenza è anche la ricerca Nielsen del 2023, secondo cui l’84% dei consumatori globali considera l’autenticità come fattore determinante nella decisione d’acquisto. Il 73% afferma di preferire brand che comunicano in modo trasparente, anche a scapito della spettacolarità o dell’estetica. Non si tratta di una rinuncia alla forma, ma di una ricerca di sostanza: il design non è più fine a sé stesso, ma deve riflettere l’identità vera dell’azienda, la sua etica operativa, la qualità effettiva del prodotto.
Un’altra dimensione del fenomeno è la crescita dei cosiddetti community brand, ossia imprese che si sviluppano non attorno a una campagna pubblicitaria ma alla costruzione di relazioni reali con il proprio pubblico. Si tratta spesso di microimprese artigiane, start-up etiche o aziende a impatto sociale, che mettono al centro la conversazione con il cliente, la co-creazione di valore e la trasparenza radicale. Il risultato è una crescita organica, meno spettacolare ma molto più resiliente.
Anche il mondo finanziario si sta adeguando a questa nuova sensibilità. I fondi d’investimento ESG (Environmental, Social, Governance) stanno premiando le aziende che non si limitano a dichiarare valori etici, ma li dimostrano con indicatori di impatto misurabili. Al contrario, le imprese che praticano forme di “greenwashing” o “purpose washing” vengono sempre più penalizzate. La coerenza non è più solo un imperativo morale, ma un criterio oggettivo di valutazione anche per gli investitori.
Nel mondo del design dei servizi e della customer experience, il paradigma dell’human-centered design si sta affermando come approccio prevalente. Si parte dai bisogni autentici del cliente, si progettano esperienze semplici, intuitive, coerenti, e si abbandonano progressivamente i fronzoli del marketing tradizionale. Il valore non è più nell’apparire, ma nell’essere: l’estetica è al servizio della funzione, e la narrazione viene costruita a posteriori, su fondamenta reali.
Un’ulteriore conferma arriva dall’analisi dei comportamenti delle nuove generazioni. Millennials e Gen Z, cresciuti nell’era della sovraesposizione pubblicitaria e della manipolazione algoritmica, mostrano una netta predilezione per i brand che mantengono una coerenza tra visione, comunicazione e azione. Sono molto meno disposti a tollerare messaggi ingannevoli o sovrastimolazioni emotive, e molto più propensi a supportare realtà che si mostrano vulnerabili, trasparenti, vere.
Il quadro che emerge è quello di una transizione culturale in atto. Dopo un’epoca dominata da tecniche persuasive sempre più sofisticate, l’attenzione collettiva si sta spostando verso modelli relazionali più semplici e autentici. Non si tratta di un ritorno al passato, ma di una nuova forma di maturità del mercato, dove la fiducia non è più acquisita attraverso la promessa, ma meritata attraverso la coerenza. L’impresa del futuro, piccola o grande che sia, non avrà bisogno di apparire migliore di ciò che è: basterà che sia ciò che dice di essere.
Noi siamo pronti, Voi?
Articolo di Marco Simontacchi
10/06/2025