Il rischio consapevole: tra impresa, investimento e visione

Nel mondo degli affari, così come in quello degli investimenti, il concetto di rischio è spesso frainteso o semplificato. Si tende comunemente ad associare il rischio alla sola possibilità di perdita, alla minaccia che qualcosa possa andare storto rispetto ai piani previsti. Tuttavia, una visione più articolata e realistica riconosce che il rischio rappresenta innanzitutto una dimensione di aleatorietà, una zona grigia dove coesistono potenziale perdita e possibile guadagno. Senza rischio, infatti, non esisterebbe nemmeno la possibilità di ottenere rendimenti significativi: è proprio la variabilità, l’imprevedibilità degli esiti, a creare lo spazio per opportunità fuori dall’ordinario.

Questa osservazione è particolarmente evidente quando si esamina la dinamica del profitto in un mercato concorrenziale. In condizioni di concorrenza perfetta, con informazioni simmetriche e accesso uguale alle risorse, i margini tendono a comprimersi. I profitti si appiattiscono, e i ritorni diventano prevedibili quanto modesti. Il rischio, dunque, diventa la risorsa scarsa, ciò che può ancora generare vantaggio competitivo. È per questo che molti imprenditori, in modo istintivo o consapevole, cercano contesti in cui l’incertezza non è ancora stata domata — settori nuovi, mercati emergenti, tecnologie non ancora mature.

Anche nei casi di monopolio, che potrebbero apparire come esenti da rischi, la situazione è solo apparentemente stabile. Un monopolio garantisce profitti elevati finché dura, ma porta con sé un rischio implicito e sistemico: quello di una perdita di competitività nel momento in cui il mercato si apre alla concorrenza o si evolve. Il monopolista, abituato a dominare senza dover migliorare, potrebbe non reggere il confronto con nuovi entranti più agili, più innovativi, più affamati. In questo senso, il vero rischio del monopolio è la perdita dell’adattabilità.

In un celebre aforisma, si definisce l’imprenditore come “colui che si tuffa da un dirupo e costruisce un aeroplano durante la caduta”. L’immagine è potente e volutamente estrema, ma coglie una verità essenziale: fare impresa significa spesso agire prima di avere tutte le risposte, scommettere sulle proprie capacità di adattamento, su un intuito visionario che precede l’analisi completa. Ma attenzione: questa non è un’apologia dell’improvvisazione. È piuttosto la descrizione di una dinamica dove il calcolo razionale coesiste con il coraggio dell’azione.

Per affrontare il rischio in modo proficuo, occorre ciò che potremmo definire una “spregiudicata ragionevolezza”. Spregiudicata, nel senso di non irrigidita da regole formali o timori paralizzanti; ragionevole, nel senso di profondamente consapevole delle implicazioni delle proprie scelte. In altre parole, non si tratta di essere temerari, ma nemmeno di attendere che tutte le condizioni siano perfette. Il rischio va riconosciuto, misurato, e abbracciato, non evitato a ogni costo.

È qui che si può richiamare una metafora classica: la differenza tra Icaro e Pitagora. Il primo vola troppo vicino al sole, inebriato da un’ambizione senza misura, e finisce per bruciarsi le ali. Il secondo osserva, calcola, conosce le leggi dell’armonia, e forse proprio per questo riesce a volare più a lungo, più lontano. Il rischio non è il nemico: l’ignoranza del rischio lo è. Le due ali che permettono di volare senza precipitare sono la consapevolezza e il controllo — senza di esse, il salto nel vuoto resta solo una caduta.

L’arte di fare impresa o investimenti non sta nell’eliminare il rischio, bensì nel governarlo. Serve intuizione, certo, ma anche metodo. Serve visione, ma anche verifica costante. Chi sa danzare sull’orlo del precipizio, senza farsi risucchiare, può davvero costruire qualcosa che vola. Non si tratta di sfidare il destino, ma di saperci dialogare. È questa la vera alchimia dell’imprenditorialità: un equilibrio dinamico tra ardimento e riflessione.

Noi siamo pronti, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

30/04/2025